giovedì 27 dicembre 2012

Condividere l'amore


Interrompo il lungo silenzio: dicembre è stato un mese lavorativamente intenso e questa è la ragione per la quale non ho scritto. Ma torno con un post dedicato alla tragedia greca, come avevo promesso qualche mese fa.

La tragedia greca nasce ad Atene nel V secolo ed è la manifestazione più alta della polis. Al tempo stesso, però, è la rappresentazione delle contraddizioni che vivono eternamente nella realtà, in una comunità e all’interno dell’individuo. Libertà e necessità, ragione e passione, stato e famiglia, vita e morte, giovane e vecchio...
 Il tentativo di affermare se stessi (o anche di fuggire da se stessi) è sempre in relazione e in contrasto con l’universo di appartenenza, che sia lo stato, la famiglia, il nostro passato. La prova ne è Edipo che, più cerca di fuggire dal suo destino, e più ci va incontro; più cerca di costruirsi una sua identità, più è costretto a rispondere di un passato che nemmeno conosce e che tuttavia lo riguarda intimamente.
Soprattutto nelle tragedie di Euripide i personaggi sono violentemente scissi fra la consapevolezza di ciò che reputano giusto e quello che una forza oscura, una passione invalicabile e incomprensibile, li spinge a compiere: «So cosa è giusto e conveniente, ma non lo realizzo nei miei atti», scrive Euripide.

Ma è probabilmente l’Antigone di Sofocle la tragedia più significativa nella rappresentazione dei conflitti umani. La storia, nota a molti, è la seguente: nella guerra di Tebe sono morti Eteocle e Polinice, fratelli della giovane Antigone, il primocombattendo a difesa della città, il secondo come nemico della città stessa. Così l’anziano zio Creonte, divenuto legittimamente il sovrano di Tebe, ha legiferato che Eteocle venga sepolto con ogni onore, mentre Polinice sia lasciato fuori dalla mura «insepolto cadavere», preda di animali e avvoltoi. Ad opporsi a questo editto è Antigone, decisa a dare a suo fratello – costi quel che costi, sfidando una morte a cui con il suo gesto andrà incontro – una degna sepoltura.
Antigone è una giovane donna (tralaltro, somma ironia, prossima alle nozze con il figlio di Creonte!) che si contrappone orgogliosamente e coraggiosamente alla volontà di un uomo anziano. Antigone rappresenta certo quei vincoli di sangue che niente può spezzare: Polinice sarà pure il nemico della città, ma è suo fratello allo stesso modo di Eteocle, ed è a lei, in quanto consanguinea, che il corpo deve tornare. Creonte invece simboleggia lo stato, e la legge che emana è logica e semplice: è necessario evitare l’anarchia e il disordine, pertanto è opportuno premiare gli amici e punire i nemici, e in quest’ottica è necessario seppellire Eteocle, l’eroe della città, e lasciare insepolto Polinice, simbolo della distruzione.
Già qui si riflettono alcuni  elementi della polis ateniese in cui Sofocle ha ambientato la sua tragedia; tensioni al tempo stesso presenti ed eterne, storiche e immutabili, destinate a rivivere in ogni spazio umano.

Ma nell’Antigone c’è molto di più. Creonte proprio non riesce a capire la posizione della ragazza: ma chi glielo fa fare di ribellarsi alle leggi, gesto che la condannerà a morte certa? Creonte è sinceramente convinto che la sua legge sia giusta, perché premia chi merita e punisce chi non merita (non è forse questa la giustizia?). Ma Antigone gli risponde, facendo intravedere un orizzonte più alto: «Chissà se sottoterra questa è la pietà». È come se Antigone dicesse: c’è un tempo in cui è corretto odiare, un tempo in cui valgono premi e punizioni, ma con la morte questo sparisce, perché la morte ha altre leggi, che l’ordine della vita non capisce e non contempla.
 E non solo. Quando Antigone contrappone alla legge scritta di Creonte la legge non scritta degli dei, ovvero un sentimento di pietà religiosa, umano oltre che sacro, che impone sempre e comunque la sepoltura di un morto (comunque sia stato in vita), fa molto di più che enunciare un insegnamento divino. No. Antigone fa leva sulla sua coscienza. «Sì, l’ho fatto e non lo nego», proclama, di fronte al re. La legge di Antigone altro non è che un comandamento interiore morale: devo seppellire Polinice perché è giusto, perché me lo impone la mia coscienza, e non ho paura delle conseguenze, perché sto lottando in ciò che credo. E tutto il resto è relativo.

In fondo, come scrive Sofocle, in a una delle battute più famose e più forti della tragedia, «Non sono nata per condividere l’odio ma per condividere l’amore».

venerdì 7 dicembre 2012

Ricetta invernale


Un’amica mi ha chiesto la ricetta del polpettone di carne che ho preparato a cena ed eccola qui… (anche se un po’ in ritardo!).

Sulle quantità io vado completamente a caso (a occhio, via), cioè giudico la consistenza con le mani quando lavoro il composto… comunque, direi: 300 grammi di carne trita, 150 di pan grattato e 50 di formaggio parmigiano grattugiato, un uovo, un pizzico di sale e di pepe (se vi va). Lavorate il composto con le mani fino a farne un salsicciotto lungo e grassoccio. Non ci devono essere spaccature, deve essere molto compatto. Se è duro aggiungete un po’ di latte (ma molto poco), se è morbido aggiungere pan grattato. Se lo volete più saporito nelle quantità iniziali diminuite il pan grattato e aumentate un po’ il formaggio, oppure usate il pecorino grattugiato, ma in quel caso attenzione a non abbondare con il sale!
Per la versione light ma sfiziosa vi consiglio di passarlo alla fine nel pan grattato in modo che poi si formi una crosticina attorno. La versione maialina (la preferita da F.!, infatti in genere di questo se ne occupa lui…) invece vuole che si copra interamente il composto con delle sottilissime fette di pancetta (in questo modo il grasso della pancetta lo insaporisce ancora di più).
In forno (usate la carta forno, mi raccomando, si appiccica tutto sennò!), quaranta minuti a 200.

E voilà! Se accendo il forno, in genere lo uso anche per il secondo. Per cui come accompagnamento ho preparato per la mia amica e suo marito carote e finocchi. Li ho tagliati in verticale a fettine, poi li ho conditi con abbondante olio, sale, pepe e maggiorana in un recipiente perché si insaporiscano dieci minuti. Poi in forno a duecento per 45 minuti. Gli ultimi quindici minuti aggiungete parmigiano grattugiato e un po’ di pangrattato (un cucchiaio per entrambi). Gli ultimi cinque minuti accendete il grill così le verdure divengono dorate in superficie.

Allego due immagini trovate su Internet (le più simili  a come realizzo i piatti che ho descritto) ma le sostituirò appena posso con foto degli originali.

Polpettone da mettere in forno in versione light (senza pancetta)

Primo piano di carote e finocchi


venerdì 30 novembre 2012

Uomini donne e pubblicità


Già che in questi giorni ho portato avanti l’argomento sulle primarie innanzi tutto premetto (perché qualcuno me lo ha chiesto) che dopodomani voterò chi è più affine alla mia sensibilità politica, chi sento più vicino a me nel suo programma riguardo ai temi che più mi stanno a cuore e che sono: lavoro, scuola pubblica, università pubblica, sanità pubblica, welfare, integrazione e ecologia. Detto questo, però, vorrei dire che lo scontro televisivo fra Renzi e Bersani è stato schiacciante. Renzi è un uomo televisivo, che sa essere molto convincente, che sa dire cose condivisibili, probabilmente privo di una certa profondità, ma in questo mondo la profondità è – ahimé – proprio un suppellettile. Bersani è andato avanti di metafora in metafora e se posso dire era un po’ ridicolo. E soprattutto alla fine… come ha detto un mio collega a scuola, Renzi era pronto per andare a ballare in disco, Bersani quasi quasi non riusciva a finire lo scontro dal sonno che aveva…
Ribadisco. Io so cosa voterò ma credo proprio che possa accadere di tutto.

Comunque. Oggi ho deciso di scrivere un post proprio stupidino privo di ogni possibile profondità. Ero in macchina e hanno dato alla radio Shoud I Stay or Shoud I Go dei Clash. Ve la ricordate? E soprattutto vi ricordate la pubblicità della Levis (dei primi anni Novanta) con il modello moro che gioca a biliardo e con questa canzone come colonna sonora? Io ero piccola ma in quanto ragazza undicenne sviluppata ricordo bene quella pubblicità ammiccante e ricordo che il tipo ai suoi tempi era considerato un figo Ecco il video: guardatelo prima di continuare… Levis 1991
Ora: non vi fa un po’ ridere con quel ciuffo tipo Travolta?

Questo episodio ispira le seguenti riflessioni che hanno come tema la pubblicità. O meglio, il maschio e la pubblicità. Dunque, un giorno una persona di sesso maschile (non posso svelare il nome!) mi ha confessato che a lui tutti questi cartelloni per strada che raffigurano ragazze mezze svestite o quasi svestite o svestite tout-court lo deconcentrano, soprattutto all’uscita dell’autostrada sono molto pericolosi perché, tra la velocità e la distrazione, rischiano di causare incidenti. Era serio. Bene. Ovviamente a me tali immagini di donnine succinte non mi distraggono, anzi, fondamentalmente non le guardo. Al più mi infastidiscono, talvolta alcune le trovo finanche offensive. D’altra parte per noi donne sia per strada che in tv non ci sono molte immagini di uomini discinti o semi nudi. Perciò mi sono chiesta: ma mi distrarrebbero se le vedessi? La risposta è no. Credo di poter parlare per il genere femminile in quanto sua rappresentante. Gli uomini sono conquistati dalle immagini, dalla finzione, penso più di noi. A me le immagini non suscitano nessuna particolare emozione: posso commentare, posso al massimo sdarmi nell’espressione “è proprio un bel vedere!” (e questo lo faccio) e una certa piacevolezza, si sa, il bel vedere la provoca, ma certo non potrebbero distrarmi per strada e non potrebbero conquistarmi in tv. Sono pratica. Per me contano solo carne e ossa. Delle immagini non mi importa niente. E ora mi spiego: rischio l’incidente solo e soltanto se vedo Brad Pitt ( o Viggo o Fassbender o qualcun altro del gruppo) attraversare la strada vivo vegeto e reale, ma state certi che non mi schianto contro un albero  se vedo un cartonato di Brad Pitt attraversare la strada.

Detto questo, va detto che la pubblicità ha fatto proprio di tutto per distruggerci i nostri sex symbol degli anni scorsi. Ricordate Banderas in Zorro? E ora lo vediamo a fare i biscotti nella casa del Mulino Bianco. Ma come è possibile? È un’operazione forse per farci sentire vecchie?
E anche Brad Pitt. Sempre bellissimo, è vero. Ma per rendergli giustizia torniamo a una pubblicità della Levis, sempre degli anni Novanta, credo del periodo di Thelma e Louise (ma forse sbaglio)… io Brad preferisco sempre ricordarmelo così.
E vi lascio con lui. Non è vivo vegeto e reale, ma, insomma, certo, non neghiamoci del tutto il bel vedere…
Brad Pitt Levis

domenica 25 novembre 2012

Democratic day


Sono qui davanti a Milan-Juve e siccome questa partita è un po’ una noia – e, per la cronaca, non inquadrano quasi mai il più belloccio in campo, ossia Amelia, il portiere del Milan – ho deciso di scrivere qualcosa sulla giornata di oggi. La giornata delle primarie.
Innanzi tutto, gli elementi spassosi della giornata:
1) Renzi non ha fatto che ripetere di iscriversi prima delle primarie per non fare la coda, ma ha aggiunto che, nel caso uno non ci riuscisse, di andare comunque a votare perché – cito – «Meglio perdere 15 minuti che 5 anni». Bon… altro che 15 minuti! Pare che Matteo si sia fatto due ore di fila, e a me fa abbastanza schiantare, e me lo vedo in Piazza dei Ciompi a discorrere con gli anziani.
2) Mentre ci sono le primarie del PD, il PDL raccoglie le firme per le sue. Che però non si sa se ci saranno. Berlusconi non vuole. Alfano, poveraccio, dal canto suo cerca di dire che non vuole candidati indagati (e qui siamo veramente al paradosso, dovrebbe essere ovvio, che lo si debba chiedere è veramente incredibile) e il partito gli si ribella (parliamone…). Insomma, sembrano davvero alla frutta. E questo, lo devo davvero dire, mi regala una  intima e succosa soddisfazione.

Torniamo alle nostre primarie, comunque. Ho votato, poi, all’ora di pranzo, dopo la messa (vorrei sottolineare che cittadina modello!) e non vi dirò per chi (almeno, non sul web). Io e F. 20 minuti di coda li abbiamo schiacciati, ma ci siamo pure divertiti (non ci si capiva nulla fra pre-registrazione, registrazione e non registrazione): si respirava un’aria di partecipazione e di democrazia. È quello che stanno tutti blaterando da ore. Ma è bello e vero che, se la cittadinanza è chiamata a decidere, a noi piace decidere e lo facciamo. Perciò il numero dei votanti è stato alto. Ho appena sentito  90000 a Milano, mi sembra super (per Pisapia furono 40000 ed era già un successo).
Le previsioni le sto ascoltando, ma le risparmierò in questo post. Certo, la situazione italiana è veramente una merdaccia. Certo, ognuno dei candidati non è per me convincente più del 60%. E ancora, lo scontro TV è stato un mix fra X Factor e il Milionario. Ok. Ma di questa giornata sono contenta. Vorrei provare a esserlo, perlomeno. La partecipazione è sempre qualcosa di positivo, esprime una voglia di rinnovamento, un tentativo di voler far sentire la propria voce, un desiderio di speranza.
Ecco, è così, io personalmente vorrei poter avere il diritto e anche il piacere di sperare. Perciò… tra poco finirà la partita e poi seguirò in Onda… ho deciso di godermi la serata, comunque vada.

domenica 11 novembre 2012

Da Socrate a Platone. Le contraddizioni di Atene e lo stato ideale


Socrate era un buffo ometto, secondo me. Bruttino, si aggirava per la città a interrogare la gente e a distruggere con l’arma dell’ironia le convinzioni altrui. Platone invece per me era belloccio (cioè, sempre per quella storia delle spalle, cioè, il fatto che il nome pare alludere agli ampi pettorali). Però, sebbene si metta sempre in discussione, non sembra aver ereditato l’ironia – e l’autoironia – del maestro.
Ma che rapporto esiste davvero fra Socrate e Platone? Nessuno può rispondere a questa domanda, per la semplice ragione che Socrate non ha mai scritto niente e quasi tutto quello che sappiamo di lui lo dobbiamo a Platone. Ma, dato che il protagonista di tutti i dialoghi di Platone si chiama Socrate, dove finisce davvero Socrate e dove comincia davvero Platone? Quale è, in altri termini, il Socrate storico e quale è il personaggio creato da Platone?

Chi ha studiato filosofia sa che vi sono dei dialoghi considerati socratici nei quali perlopiù si racconta la vita e la speculazione del maestro; si sa anche che l’uso del dialogo era il modo con cui Socrate si approcciava alle persone: faceva domande, cercava risposte, metteva a nudo la banalità delle risposte ricevute e spingeva l’interlocutore a pensare davvero, a non rimanere fermo a un sapere precostituito, a indagare, a partorire un sapere nuovo che può provenire solo dal confronto con l’altro e dall’analisi di se stesso. Al contrario, si sa che la dottrina delle idee è il punto di inizio e di arrivo della filosofia platonica.

Tutto questo è vero. Ma è poco. Il rapporto fra Socrate e Platone è qualcosa di affascinante e complesso. Socrate è il maestro. Platone è il discepolo che ha amato più di ogni altro il suo insegnamento e che, forse proprio per questo, ha guardato in se stesso ed è stato in grado di costruire la sua filosofia e il suo pensiero.
Socrate è vissuto davvero per 70 anni in una città (Atene) stimolante e viva, ma attraversata da contraddizioni e inquietudini. Socrate ha visto l’apogeo di Pericle e l’affermarsi della democrazia, ha visto la nascita dell’impero navale ateniese, ma ha visto anche l’amore per la libertà e l’orgoglio per la democrazia trasformarsi in smania per il potere, in relativismo morale, in violenza giustificata dal mito del più forte. Ha visto la potenza di Atene sgretolarsi durante la Guerra del Peloponneso contro Sparta, ha visto Pericle morire durante la peste, ha visto l’impero navale sfaldarsi, ha visto l’insediarsi di un governo tirannico voluto dalla rivale storica Sparta.
Socrate amava Atene più di ogni altra cosa. Lo dice chiaramente. Anzi, è Platone che glielo fa dire chiaramente. Non importa se sarà il tribunale ateniese a condannarlo a morte, Socrate ugualmente deve tutto ad Atene. Solo ad Atene in quel preciso momento storico si poteva essere filosofi. Solo ad Atene un uomo come Socrate, che non apparteneva a una famiglia facoltosa o all’aristocrazia, poteva emergere. Solo ad Atene aveva senso discutere sulle leggi, sentirsi cittadino, confrontarsi con gli altri. Atene ha dato tutto a Socrate. Socrate lo sa, e accetta di buon grado e con la sua consueta ironia la condanna («Altro che infliggermi una multa ragazzi, la città dovrebbe pagarmi un vitalizio per quello che ho fatto qui». Questa battuta qualcuno non la prende bene, e infatti la sentenza sarà modificata da pagare un’ammenda a subire la pena di morte).
 Il ragionamento di Socrate è semplice: io ho dato tutto ad Atene, Atene ha dato tutto a me, fino alla fine io ho cercato di mantenere vivo questo legame, ma se non è più possibile, intendo bere la cicuta e morire qui, qui dove sono sempre vissuto, qui dove c’è tutto quello che ho amato. La fine del sodalizio fra Atene e Socrate, in altri termini, non deve spezzarsi con la morte; al contrario, è offrendosi alla morte che Socrate lo suggella.

Platone no. Platone ha conosciuto solo per sentito dire l’apogeo di Atene, il suo periodo più prospero e d’oro. Platone ha visto solo la violenza, ha conosciuto la sconfitta, ha visto una democrazia populista e un po’ corrotta. E in questo clima non idilliaco ha conosciuto e seguito Socrate. Socrate, l’uomo più giusto dei suoi tempi, dice spesso Platone. Socrate si sentiva perfettamente integrato ad Atene. Platone no, Platone non poteva perdonare ad Atene di aver condannato a morte Socrate. E se Socrate beve tutto tranquillo la cicuta pacificato con il mondo e con gli altri (E a chi gli propone di fuggire dal carcere risponde tra le altre cose «Ma dove dovrei andare? Sono sempre stato qui, e c’ho pure settant’anni, sono vecchio!!»), Platone non riesce proprio ad accettare questo smacco che gli provoca così tanto dolore.

Secondo me, è qui che Socrate e Platone si dividono. Socrate era il cittadino di Atene, né più né meno. Platone non poteva esserlo, e con tutte le sue forze ha cercato di creare con il pensiero uno stato perfetto, lo stato che non avrebbe mai mandato  a morte l’uomo più giusto dei suoi tempi, il maestro. E da qui nasce l’interrogazione sull’idea di giustizia, sull’idea di bene, sull’idea di bello. Platone sapeva che questo stato non esisteva né sarebbe mai esistito, ma doveva crederci. Perché questo doveva essere lo stato ideale a cui tendere, per farne sulla terra uno che non fosse perfetto, ma se non altro migliore di quello attuale.

sabato 10 novembre 2012

Omaggio agli Stati Uniti


Dal discorso di Obama alla Nazione: 
Ecco cosa può essere la politica. Ecco perché le elezioni contano. Non è poco, è una cosa grande. È importante. La democrazia in una nazione di 300 milioni di persone può essere caotica e complicata e rumorosa. Abbiamo ognuno la propria opinione. Ognuno ha cose in cui crede. E quando attraversiamo momenti difficili, quando prendiamo grandi decisioni come paese, questo necessariamente mette in campo passioni e controversie.
Tutto questo non cambierà dopo stanotte, e non deve farlo. Tutto ciò è simbolo della nostra libertà. […] Ma nonostante le nostre differenza, molto di noi condividono certe speranze per il futuro dell'America. Vogliamo che i nostri figli crescano in un paese dove abbiano accesso alle migliori scuole e all'insegnamento dei migliori docenti. […]. Crediamo in un'America generosa, in un'America che ha compassione, in un'America tollerante, aperta ai sogni della figlia di un immigrato che studia nelle nostre scuole e crede nella nostra bandiera. […] Ho sempre creduto che la speranza è così ostinata dentro di noi, nonostante tutto, che ci aspetta qualcosa di meglio, se abbiamo il coraggio di continuare a tendere verso ciò, di continuare a lavorare, di continuare a lottare.
America, io credo che possiamo costruire sul progresso che abbiamo ottenuto e continuare a lottare per nuovi lavori e nuove opportunità e nuove certezze per la middle class. Credo che possiamo mantenere le promesse dei nostri fondatori, nell'idea che se si è disposti a lavorare sodo, non importa chi sei o da dove viene o che faccia hai o chi ami. Non importa se sei nero o bianco o ispanico o asiatico o indiano d'America o giovane o vecchio o ricco o povero, abile, disabile, gay o etero. Se hai voglia di provare in America puoi farcela!
Credo che possiamo afferrare il futuro insieme perché non siamo divisi come suggerisce la nostra politica.[…]. Siamo più grandi della somma delle nostre ambizioni individuali, e rimaniamo più di una manciata di stati blu e rossi. Siamo e saremo per sempre gli Stati Uniti d'America.


Da American Land (Bruce Springsteen):


There’s treasure for the taking   C’è un tesoro a disposizione
for any hard working man per ogni uomo che lavori duro
who’ll make his home che costruirà la sua casa
in the American land nella terra americana

The McNicholases, the Posalskis I McNicholas, i Posalski
the Smiths, Zerillis, too gli Smith, anche gli Zerilli
the Blacks, the Irish, Italians i neri, gli irlandesi, gli italiani
the Germans and the Jews i tedeschi e gli ebrei
they come across the water arrivati attraverso il mare
a thousand miles from home mille miglia lontano da casa
with nothing in their bellies con le pance vuote
but the fire down below ma il fuoco dentro

They died building the railroads Morirono costruendo le ferrovie
they worked to bones and skin lavorando sino a ridursi pelle e ossa
they died in the fields and factories morirono nei campi e nelle fabbriche
names scattered in the wind e i loro nomi dispersi al vento
they died to get here a hundred years ago morirono per arrivare qua cento anni fa
they’re still dying now e ancora muoiono oggi
their hands that built the country le loro braccia hanno costruito il paese
we’re always trying to keep out stiamo sempre cercando di tenerle fuori


domenica 4 novembre 2012

Le mie avventure lavorative - Parte IV


Eh… questa puntata è ancora un nervo scoperto per me. Cercherò di essere il più obiettiva possibile, anche se è davvero difficile porre quella distanza che consente una maggiore obiettività. Perciò spero di non ferire nessuno con questo post: si tratta sempre di quello che io ho percepito, e non pretendo pertanto di essere depositaria di una verità assoluta. Quella di cui sto per parlarvi è solo la mia verità.

Alla fine del 2006 ho cominciato a collaborare con un prestigioso istituto culturale fiorentino, il V.: tra prestazioni occasionali e contratti a progetto, mi sono occupata di ricerca, di editing e redazione di volumi, di organizzazione e segreteria di convegni, piccole mostre e conferenze. Devo molto al V. sia in termini di formazione e maturazione lavorativa, sia in termini affettivi.
Da una parte, cioè, mi ha permesso di collaborare con l’Università e con altre realtà culturali fiorentine, mi ha concesso di fare per anni un lavoro bello e gratificante, in linea con i miei studi, un lavoro che mi piaceva e in cui credo di essere stata brava. Ho sempre avuto un buon rapporto con il mio responsabile (dopo l’esperienza nella pubblicità all’inizio che fosse una persona pacata e niente affatto iraconda mi sembrava quantomeno strano… ero sempre in attesa che esplodesse... prima o poi!). Per quello che mi ha trasmesso lo stimo molto. Mi ha anche ridato molta della fiducia in me stessa che con la MTC se n’era bellamente andata.
D’altra parte, gli anni al V. sono stati davvero i più pieni di vita per me. Le persone che hanno popolato quegli anni mi hanno cambiata e arricchita. E la quotidianità, fatta di caffè alle 11 con i colleghi, di teini (martedì dopo il lavoro) con M., e di chiacchierate con C., E. e le altre, bé, era una coperta sicura, anche quando mi sentivo malinconica, o agitata, o avevo combinato qualche stronzatella delle mie.

E, dopo aver creato questo clima idilliaco, intendo spezzarlo a colpi di accetta. Vi chiederete: ma com’è che non lavori più lì? Destino dei contratti a progetto: sono fatti per finire, anche quando lavori in un luogo per anni, con continuità, come è accaduto a me. E finiscono, vorrei specificarlo, con un calcio in culo, cioè senza cassa integrazione o altri regalini simili. Finiscono, e basta, come finisce un amore; tante grazie e tanti saluti.

E ora vi racconto com’è finita per me. Il nostro boss è andato in pensione, niente di più niente di meno. Lui dirigeva un settore del V.: senza di lui questo settore semplicemente non esiste più (o meglio, esiste, nel senso che la porta è aperta e che è rimasta una sala di consultazione, ma nessuno dei progetti che seguivamo c’è ancora), e tutti noi collaboratori (una decina) siamo stati mandati a casa.
A suo tempo pensammo insieme di scrivere una lettera a Renzi. Non tanto perché ci si aspettasse una soluzione, quanto per segnalare un problema, per essere visibili. Voglio dire, perché “esautorare” un settore che è vissuto 30 anni come se non ci fosse mai stato? E poi… si può sempre discutere nel merito dei singoli progetti, ma è vero che noi collaboratori eravamo un gruppo di studiosi, tutti giovani e molto qualificati, ed è quantomeno triste prendere a martellate un gruppo di lavoro. Ma la lettera (che è stata scritta) non è mai partita. Siamo stati bloccati da dinamiche interne: quando in un luogo di lavoro esistono settori diversi, non è detto che dialoghino fra loro o che abbiano interessi condivisi. Siamo stati vittime di questa situazione, e questo ha diviso anche noi. E devo dire che è stato questo a ferirmi di più: la consapevolezza che, per quanto si possa essere forti e coesi, a volte non basta, perché gli eventi esterni sono capaci di essere più forti di te e delle tue intenzioni.

Così, a luglio 2011, è finito tutto (qui forse ho esagerato con il patetismo, il racconto mi ha preso la mano!!!). Non è stato tanto facile per me, soprattutto per quello che rappresentava il V. da un punto di vista affettivo. E anche perché non sono molto brava ad affrontare le separazioni o gli abbandoni, mi segnano in modo indelebile.
Non è stato poi facile digerire un finale così umiliante e logorante. Sapete cos’è offensivo? Che è come se non avessi perso il lavoro, perché in fondo sono sempre stata a progetto, come se il mio lavoro fosse di serieB rispetto a chi è assunto a tempo interminato. Eppure io ero lì, tutte le mattine e anche diversi pomeriggi, da cinque anni. Non è come perdere il lavoro? 5 anni non sono 20, ma per una persona di 33 anni come me è un ciclo di vita, è come il tempo delle Elementari, delle Scuole Superiori, dell’Università. Mi dispiace, sono anni sufficienti per starci male.

Sapete però che io non sono una tipa che si scoraggia. Se piango poi mi rialzo. E così, dopo il V., ho veleggiato verso una nuova avventura lavorativa (…pessima ma tutta da raccontare… nella parte V!).

Intanto dedico questo post ai miei ex colleghi (e sempre amici) del V. con tutto il mio affetto e la mia stima.

sabato 27 ottobre 2012

Le Primarie del PD... Ma che si fa?


Qui ci avviciniamo alle primarie e sinceramente non ho le idee chiare (ma mi pare di essere in buona compagnia…). Gente che si fa? Per votare voterei. Ma per chi? Mi appello agli amici lettori, avrei bisogno di un consiglio.
Dunque, Renzi, Bersani, Vendola. Non mi sembrano tre delinquenti (anche se Vendola con questa storia dell’ospedale è per me una grossa delusione): la qualcosa dovrebbe essere normale (cioè, da quanto ne so io, i delinquenti dovrebbero essere in galera) ma nei nostri tempi bui (vedi Er Batman di Anagni e ‘ndrangheta al Pirellone, tanto per citare il meglio) non è più tanto un’ovvietà. Perciò la partenza non è male. Ma…
Analizziamoli uno per uno.

Renzi. Di certo, senza voler dire che è di destra, è il più centrista dei tre. D’altra parte non mi sento del tutto lontana da alcuni suoi concetti: apprezzo l’idea del rinnovamento, ha (sempre presumibilmente) una certa sensibilità per i servizi alle famiglie e per la scuola (come sapete, la moglie è un’insegnante, credo precaria). Non mi pare un oltraggio che dialoghi con tutti, anche con i banchieri e con gli elettori di destra: va però detto che fa passare per rispetto e tolleranza quella che secondo me è piuttosto una furbata. Ha molta energia e ciò non guasta. In televisione è bravo, risponde in modo molto deciso e diretto, indubbiamente ci sa fare. Ha frequentato il mio liceo (cioè, lui finiva e io entravo), perciò giocava a calcio in Piazza della Vittoria, e questo mi ha sempre fatto molto simpatia. Ma questo non vale. Da una parte, seppure non mi convinca completamente, mi piacerebbe dargli una possibilità, tanto potrà fare peggio di questa merda? Solo che c’è una cosa che proprio non riesco a sopportare: Renzi non era quello che non ne voleva sapere di dedicarsi alla vita politica, perché Firenze è la città più bella del mondo e fare il sindaco di Firenze è il lavoro più bello del mondo?
E allora che lo facesse, fino in fondo, per bene, dato che è pagato per questo, invece di girare in camper per l’Italia (che poi pare raggiunga il camper in aereo). Io non ho dubbi che lui stia facendo il sindaco e la sua campagna elettorale contemporaneamente (con tutta l’energia che c’ha, ce la può anche fare), solo che, non so, a me dà fastidio lo stesso. Fare il sindaco della città più bella del mondo dovrebbe occupare tutta la tua energia, tutto il tuo impegno, tutta la tua volontà, per cui, Renzi, non ti voterò. È uno spregio troppo grande per una fiorentina dantina come te.

Bersani. Non capisco da che parte stia. Con tutti non si può. Con il centro o con la sinistra radicale? A me Bersani non dispiace. Ha esperienza, e una certa profondità di ragionamento.Ha anche fatto filosofia, questo mi ben dispone verso di lui. Ma mi pare che sia già stanco e non ne possa già più prima di cominciare. Siamo sicuri che poi ce la faccia a sobbarcarsi i casini di questo paese?
Vendola. Di certo Vendola ideologicamente lo sento più vicino. Sposo in pieno le sue posizioni sui diritti e sugli immigrati. E poi è l’unico con una certa attenzione all’ecologia. Non che io sia una tizia particolarmente “verde”, diciamo così, ma credo che il tema in politica vada contemplato con responsabilità prima che la disattenzione  verso la natura ricada con violenza su di noi. Solo che la questione dell’ospedale (di cui accennavo all’inizio) non mi convince.
Inoltre c’è la questione dei diritti ai lavoratori, per la quale ho paura che né Bersani né Vendola possano rappresentarmi (e in questo, forse, mi sento più vicina a Renzi). Cioè, perché mai un lavoratore nel pubblico dovrebbe essere intoccabile? Vi spiego quello che intendo, non vorrei essere fraintesa. Io sono stufa di andare alla posta, in biblioteca, o in altri luoghi pubblici analoghi, e di trovarmi dei tipi che lavorano al pubblico scoglionati, lenti e maleducati. No. Io questi li manderei a casa. E anche con un calcio in culo. Tutte le volte mi incavolo, e tutte le volte penso che in quel posto lì sarebbe sicuramente più a suo agio e più funzionale uno qualunque dei miei amici, che è mediamente più intelligente, mediamente più veloce ad apprendere, mediamente meno stanco, mediamente meno schifiltoso e disposto a fare tutto e a lavorare con più energia. Direi pure che sarei pure meglio io, se non altro solo perché sarei più gentile.

Tornando a noi, che si fa? Boh, intanto continuo a pensarci… nel frattempo godetevi questi video. Perché, se c’è una cosa che si può dire, è che comunque c’è della comicità in tutti e tre…

Vendola: imitazione di Checco Zalone
Bersani: imitazione di Crozza
Renzi: Noi ragazzi di oggi noi...

giovedì 25 ottobre 2012

Io e la Fenomenologia


Niente Platone: sto lavorando al mio libro (oh…oh… surprise!) e per oggi ne ho visto troppo! Ma vorrei comunque dedicare questo post alla filosofia, in particolare alla Fenomenologia, corrente di pensiero che nasce e si sviluppa nel Novecento ad opera soprattutto di un certo signor Edmund Husserl. All’Università preparai l’esame assieme alla mia amica C. : a lei piaceva Husserl, mentre io preferivo Heidegger; sono stata una fessa, aveva ragione lei, Husserl è di gran lunga più simpatico e, oltre a questo, la Fenomenologia – a mio modestissimo avviso –  ha molto da dire anche oggi. Perciò, Edmund, considera queste mie parole come tardive scuse e come un tardivo omaggio.

La Fenomenologia è una teoria e un metodo al tempo stesso. Lo scopo è «ritornare alle cose», ossia non analizzare la realtà con preconcetti e pregiudizi intellettuali, ma soffermarsi davvero su quello che vediamo, su quello che percepiamo, su quello che sentiamo. Sulla vita, nel suo scorrere e nel suo divenire. Ma «ritornare alle cose» – e dunque alla vita – significa indagare il rapporto che esiste fra noi e le cose stesse (cose è inteso in senso lato, nel senso di ciò che ci circonda; fa riferimento agli oggetti, alle persone, alle situazioni, eccetera…), dal momento che niente esisterebbe senza una mente che dà senso a ciò che vede, che sente e che percepisce.
In altri termini, il nostro approccio al mondo è condizionato, secondo Husserl, dai nostri atti mentali. Ovvero, quando conosciamo qualcuno, o apprendiamo qualcosa, il processo è sempre intenzionale. Cosa significa questo? Significa che la nostra mente non è chiusa in se stessa, ma è aperta al mondo, alle cose, alle persone, e che è sempre “direzionata” verso di esse. A seconda delle situazioni, delle persone e delle cose, la mente si rapporta al mondo con atti mentali sempre diversi: percependo, amando, odiando, immaginando, credendo, desiderando, temendo e così via.

Mi piace molto questo concetto. Intanto è bello dire che la nostra mente è aperta agli altri, è come se fosse sempre pronta a dare e a ricevere. E nella filosofia di Husserl si dice con forza e in modo chiaro che sono atti mentali della nostra coscienza ugualmente la percezione, l’immaginazione, l’amore, l’odio, il ricordo, la sensazione, eccetera. È come se si dicesse che ogni conoscenza degli altri e della realtà è tale perché interagiscono elementi cognitivi e emozionali insieme, e nessuno dei due è superiore all’altro, o ha una dignità maggiore dell’altro nel ragionamento e nella comprensione.

Non posso spingermi molto oltre, perché Husserl è un tizio parecchio complicato e non sono in grado di scendere più in profondità. Rischierei di tradire completamente il suo pensiero.  Solo una cosa. Il processo di conoscenza degli atti intenzionali della nostra coscienza è lungo e difficile e complicato e tortuoso, dice Husserl (non so francamente se usi queste parole). Sì, concordo: banalizzando moltissimo, siamo complicati e abbiamo difficoltà a capire noi stessi e il modo in cui ci rapportiamo al mondo. Ma io personalmente sono orgogliosamente fiera di essere complicata. Al tempo stesso, come credo facessi tu, caro Husserl, faccio appello a tutte le mie forze per comprendere i miei atti mentali, per comprendere a cosa cappero sono orientati, e faccio appello sempre a tutte le mie forze per comprendere gli atti mentali degli altri, e al modo in cui guardano al mondo. Perché credo che la conoscenza sia vita, e a questo non voglio davvero mai rinunciare.

lunedì 22 ottobre 2012

Tutti i santi giorni


Ho visto l’ultimo film di Virzì e me lo sono pianto tutto, dall’inizio alla fine (saranno i troppi ormoni femminili in circolo). Scherzi a parte, Tutti i santi giorni è un film intimistico e delicato, una storia d’amore quotidiana sorretta da due bravi attori: lui, Luca Marinelli, l’avevamo già visto in La solitudine dei numeri primi e si riconferma in un ruolo non troppo dissimile, lei, Rosaria qualcosa detta Thony, è una cantante siciliana dalla voce calda e dolce e alla sua prima – e riuscita – apparizione sul grande schermo.
Guido (Luca Marinelli) fa il portiere di notte in un albergo romano: è un lavoro che gli piace perché così può dedicarsi alla sua grande passione, la lettura. Guido è infatti intelligente, sensibile e coltissimo (Guidipedia), esperto in latino con una tesi di dottorato sui santi protocristiani. Sveglia Antonia (Rosaria qualcosa) tutte le mattine con la colazione a letto (e con il racconto del martirio del santo protocristiano di cui si festeggia l’onomastico) e lei, solare, grintosa, irrequieta, prende il motorino per andare in aeroporto dove lavora in un’agenzia di autonoleggio. Talvolta, però, la sera suona le sue canzoni in un locale e Guido la guarda e ascolta sempre con amore, come la prima volta.

Guido e Antonia sono potenzialmente fragili, ma insieme riescono a essere forti; da soli forse sarebbero a loro modo due disadattati, ma insieme si aiutano a superare le proprie asperità; di certo sono due anime belle in un ambiente e in un contesto molto volgare (una Roma popolata da individui gretti violenti e buzzurri).
Guido e Antonia, si amano, molto, tutti i santi giorni.
Guido e Antonia vogliono un figlio e provano ad averlo, tutti i santi giorni.
Guido e Antonia non riescono ad averlo e affrontano spermiogrammi, ginecologi, e fecondazioni assistite.
Un grande amore può resistere a questa difficile prova?

Il film risponde a questa domanda, io però non lo farò, altrimenti vi rovino la visione. Vi assicuro che la sofferenza di Antonia è stata molto coinvolgente, almeno per me. E la generosità di Guido davvero commuovente. E poi si tratta comunque di un film di Virzì, regista che sa creare con facilità situazioni divertenti e paradossali (il top la sequenza dello spermiogramma). Certo, non è riuscito come Tutta la vita davanti (il mio preferito) ma suscita molte domande: sull’amore, la ricerca della felicità, la condizione di precarietà e insicurezza. Ma Tutti i santi giorni è, come il titolo suggerisce, un film sulla quotidianità. In fondo la quotidianità altro non è se non un percorso: sebbene tutti i giorni siano all’apparenza uguali, è dal tempo, dalla ripetitività dei gesti, dalla consuetudine di vita con chi ci sta vicino, che – quasi involontariamente – apprendiamo, cambiamo, inesorabilmente cresciamo.

domenica 14 ottobre 2012

Passatelli e tradizioni di famiglia


Questo è stato un weekend del tutto casalingo in cui mi sono prevalentemente riposata anche se ho costretto F. alle grandi pulizie autunnali. Vi dico solo che ho lavato i vetri! Penso che non li lavavo da prima del matrimonio (eh, no comment, lo so), ma devo dire che mi compiaccio per averlo fatto con ogni crisma. Prima li ho spolverati con un panno, poi ho usato una spugna bagnata e li ho asciugati con un panno umido, a questo punto ho usato il detergente per i piatti diluito in abbondante acqua e infine li ho asciugati con il giornale. E non solo sono puliti, ma non ci sono aloni! Ringrazio per questo il blog di una tipa che dava consigli su come effettuare lavori domestici, così ho deciso di diffondere anche io sulla rete questo sapere appena acquisito.

Siccome è un po’ che non scrivo e mi dispiace, ma non sono in vena stasera di raccontare episodi edificanti (forse perché sto guardando In onda, e credo che le vicende politiche italiane siano in grado di paralizzare ogni slancio creativo) o di dilettarmi in filosofia, e siccome vengo – come vi accennavo – da un fine settimana molto casalingo, ho deciso di pubblicare un post poco impegnativo ma, per così dire, useful, con una ricetta da consigliarvi.

Si tratta dei passatelli. I passatelli sono una tipica pasta romagnola e marchigiana, una sorta di spaghettoni molto spessi e corti (3-4 cm). Non li avevo mai fatti, ma hanno un valore simbolico: sono legati alla mia famiglia, ossia alle origini marchigiane di mio papà e sono stati tramandati dalla nonna alle zie e anche a mia mamma (che li fa molto bene). In realtà sono semplice da realizzare: si prepara un corposo impasto con 1 uovo, 50 grammi di parmigiano grattugiato e 60 grammi di pangrattato (dosi per due persone), un po’ si sale, di pepe e di noce moscata (ma noi non ce l’avevamo, e abbiamo fatto senza). Consiglio della mamma è l’aggiunta di un po’ di burro per far diventare il composto più gustoso e più omogeneo. Il composto non va lavorato tanto, basta formare una palletta alta e spessa (tipo un polpettone). Per fare i passatelli si può usare il passapatate oppure uno strumento apposito: un attrezzo circolare costituito da una serie di  fori di 4-5 centimetri, che va posto sopra la palla di impasto, esercitando su di essi una leggera pressione in modo che escano questi spaghettoni piccoli e grassottelli.
La tradizione vuole che si facciano in brodo (anche io e F. li abbiamo fatti così) ma ve li consiglio anche con un condimento estivo (olio, pomodorini freschi e rucola a pezzettini) oppure di pesce (vongole e prezzemolo): a volte al ristorante al mare li ho mangiati così.

Penso che la bellezza della cucina stia proprio nella possibilità che essa offre di mantenere il legame con la famiglia, con la terra e con le tradizioni. Un continuum che parte da lontano e può andare lontano. E penso anche che la forza della cucina stia nella condivisione, nel poter trasmettere o regalare o destinare qualcosa a qualcuno. Perciò, ecco qua… spero di aver condiviso con voi un piatto a me molto caro, perché appartiene alla mia famiglia.

Passatelli con l'attrezzo apposito

domenica 30 settembre 2012

Ho paura torero


Dopo il post sulle Avventure lavorative-Parte III ci sono stati molti sconvolgimenti positivi nella mia vita lavorativa, appunto (neanche li avessi chiamati!). Si sono tutti concentrati nel giorno di mercoledì 19 settembre (una giornata memorabile, doveva anzi durare 72 ore e tanto che c’ero avrei dovuto giocare alla lotteria. Una botta di culo così non so da quanto tempo non la vedevo). Ma per scaramanzia per ora mi riservo di raccontarveli, diciamo solo che sto respirando e che al momento non guadagno più solo 600 euro al mese…
Questo solo per tranquillizzare alcuni lettori e anche per creare un po’ di suspance…

Il post di oggi è invece di nuovo dedicato alla lettura. Quest’estate non sono riuscita a trovare un libro memorabile, o anche solo un buon libro, da consigliarvi. Il migliore che ho letto è stato Se ti abbraccio non aver paura: la storia (vera) di un viaggio in moto e in macchina attraverso gli States e il Guatemala di un padre con suo figlio. Niente di strano, per ora, se non che il figlio in questione, Andrea, è un ragazzino autistico. Si tratta di un libro toccante e dolce, con la forza delle storie vere, senza un lieto fine, o per meglio dire, senza una fine: è solo il racconto di un momento straordinario all’interno di una vita difficile, ed esprime con coinvolgente passione l’amore di un padre verso il proprio figlio, e il suo tentativo di comprenderlo, di essergli accanto, di aiutarlo. Andrea, assente e presente a modo suo, che ama toccare le pance, che potrebbe abbracciare un estraneo all’improvviso, che viaggia con una bacchetta magica e sempre e rigorosamente in punta di piedi, è davvero la luce di questa storia. Impossibile non adorarlo.

Se d’estate non sono riuscita a trovare libri del tutto soddisfacenti (a parte quello citato) ho cominciato l’autunno con un titolo che al contrario consiglio caldamente: Ho paura torero di Pedro Lamebel. È un autore molto amato e conosciuto in Cile, credo che questo sia il primo (o forse il secondo) libro tradotto in Italia. Come tutti i sudamericani, Lamebel ha una prosa calda e poetica, immaginifica e sensuale, capace di spaziare con facilità dal riso al pianto, dalla commozione all’indignazione, dall’amore alla politica.
Siamo a Santiago, durante la dittatura di Pinochet. La protagonista, la Fata, è un transessuale romantico e sognatore, che non si sa come si ritrova in casa un gruppo di militanti del fronte patriottico Miguel Rodriguez, alla ricerca di un rifugio sicuro in cui portare le loro cose e fare le loro riunioni. La Fata è pazzamente innamorata di uno di loro, Carlos, giovane e bellissimo studente, ed è per amore che finge di non comprendere cosa stia succedendo, che accetta missioni rischiose, che si fa ingannare consapevolmente. È il racconto perciò di un amore impossibile e appassionato, con momenti di lirica bellezza, costruito su un personaggio davvero meraviglioso: la Fata, ingenuamente coraggiosa, follemente ardente, dolcemente buffa, che odia ascoltare la politica alla radio, mentre ama cantare canzoni d’amore, ma ugualmente capace di grandi slanci e di altrettanto grandi sacrifici. La vediamo indossare vistosi cappelli per piacere a Carlos (pur sapendo che non l’avrà), la vediamo dimenticare sbadatamente le armi in autobus e andarsele a riprendere con un piglio ardimentoso e quasi compiaciuto, la vediamo stendere una sua tovaglia splendidamente ricamata sulla spiaggia per rendere magico un addio.
Ma se la Fata è certo l’anima di questo libro, direi che i momenti più divertenti li regalano i dialoghi fra un vecchio e pauroso Pinochet e la sua insopportabile e logorroica moglie. Indimenticabili le premonizioni della moglie avvisata dell'attentato dallo stilista Gonzalo che le aveva fatto le carte. E spassoso il racconto che regala alla televisione: secondo lei, le pallottole avevano disegnato – sul vetro della macchina – l’immagine della Vergine che aveva salvato il marito.

Lamebel, nella sua apparente leggerezza, non dimentica l'impegno politico e sociale. E spesso si aprono squarci su una Santiago oppressa dalla dittatura, cupa e isolata, ma nella quale si agitano, sotto l’apparente rassegnazione, rivolte popolari, simbolo di una mai sopita vitalità.

lunedì 24 settembre 2012

Demiurgo, necessità, anima del mondo


Nella creazione del mondo secondo Platone interagiscono tre elementi: le idee, la materia e il demiurgo. Vi è una materia oscura, caotica, irrazionale, da plasmare. E ci sono delle idee eterne, perfette, che rappresentano il modello a cui tendere. In mezzo fra la materia e le idee vi è il demiurgo: è una sorta di Dio che crea il mondo, è vero; ma questa è una visione un po’ semplicistica: la parola in greco non significa affatto divinità, significa artigiano, artefice, artista, ordinatore e solo di conseguenza creatore.
Il demiurgo è una sorta di artigiano, perché sa modellare e forgiare la materia; è artefice, perché da questa capacità nascono le cose e la realtà tutta; ma è anche artista, perché il mondo che nasce dalle sue “mani” e dalla sua intelligenza è bello da vedere; è ordinatore, perché la sua creazione non avviene dal nulla, ma da qualcosa che è informe e caotico e che lui rende preciso e organizzato. Ecco cosa fa il demiurgo platonico: guarda i modelli ideali e, uniformandosi ad essi per quanto è possibile, plasma la caotica materia fino a quel momento senza identità. In altri termini, riduce il caos a cosmo. La differenza? Il caos non ha intelligenza, non tende a niente; il cosmo sì, ha una sua intrinseca finalità, ha una sua intrinseca intelligenza. Scrive Platone una frase bellissima: «Non esiste intelligenza senz’anima». E così è come se il demiurgo avesse donato un’anima al mondo. Per Platone, il suo mondo, che poi è anche il nostro mondo, ha un’anima ed è questo che lo rende bello.

Già, ma il male? Dov’è il male che nel nostro mondo esiste (e non vi è alcun dubbio al riguardo) e in quello di Platone sembra essere escluso? No, attenzione, non è affatto così. La materia che descrive Platone (quella plasmata per creare il cosmo) è irrazionale e caotica, ma non propriamente passiva. La materia fa resistenza alla creazione del mondo. Platone è molto chiaro in questo: il demiurgo riduce dal disordine all’ordine «per quanto è possibile», fabbrica l’universo nel modo migliore «che si possa». Cioè. Non totalmente, ma solo al massimo delle sue possibilità, nei limiti in cui glielo consente la materia.
Non solo. Non è un caso che questa materia venga chiamata da Platone talvolta anche ananke, ovvero necessità. Nella creazione del mondo, perciò, accanto all’intelligenza ordinatrice, vi sarà sempre un quid di necessità; il mondo creato sarà sempre una combinazione di anima intelligente e di necessità. Cosa vuol dire necessità? La necessità è qualcosa che non può non essere, è qualcosa di inevitabile, qualcosa di impossibile da cambiare, è il limite oltre il quale nessuna intelligenza può spingersi.

In altri termini. Platone ha, chiara, la consapevolezza che esista nel nostro mondo sempre qualcosa di intrinsecamente caotico, qualcosa di necessariamente irrazionale e inspiegabile, qualcosa che, nonostante tutti i nostri sforzi, non potrà essere plasmato, non potrà essere modificato. La morte, la malattia, ad esempio. Ma anche il fatto che, in quanto uomini, siamo imperfetti, e qualche stronzatella la faremo sempre e comunque. Però contro questa “malvagia” necessità abbiamo un’arma: l’intelligenza. Abita, per Platone, nell’anima del mondo. Abita dentro di noi. Sebbene non possa tutto, potremmo intanto usarla al massimo delle nostre possibilità.

martedì 18 settembre 2012

Le mie avventure lavorative Parte III


Cari amici, dalle Avventure lavorative parte III cominciano le dolenti note, lo sprofondare negli inferi della mia vita da precaria sempre più precaria. Si astengano perciò i deboli di cuori.
Sto esagerando, ovviamente. Ma la difficoltà esiste ed è tangibile e quindi, sebbene io non sia una tipa che si scoraggia facilmente, sebbene io non sia particolarmente iraconda, qualche sassolino dalla scarpa mi piacerebbe levarmelo e qualche bel vaffanculo urlarlo. Ho deciso di farlo così.

Dunque. Vi dicevo nelle Avventure lavorative parte II che, per incompatibilità, non ho potuto seguire assieme dottorato e Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento (SSIS) e ho dovuto fare una scelta.  Ho scelto il dottorato. E ho congelato (si dice così) le SSIS. Ne sono lieta e felice, vorrei anzi che fosse chiaro che, se potessi tornare indietro, non farei mai una scelta diversa da quelle ho fatto, non intraprenderei mai un cammino diverso da quello che ho intrapreso, non è questo… nondimeno, la Gelmini con le sue belle riforme mi ha fatto proprio un bello scherzetto (per inciso, ha combinato guai anche con l’Università e ha giocato pure un bello scherzetto a F.). Mentre stavo finendo il dottorato ed ero quindi in procinto di “scongelarmi”, le SSIS sono state eliminate.

Dunque, forse ci vuole una piccola spiegazione su come funziona il caotico mondo dell’insegnamento. Tu fai (facevi) le SSIS, questo ti abilita(va) all’insegnamento, questo ti consente(iva) di essere nelle Graduatorie dalle quali chiamano per le supplenze a scuola e, man mano che sopporti e pazienti e che accumuli punteggio, potresti anche diventare insegnante di ruolo. Ora, io non ho mai chiesto tanto. Se posso fare le supplenze e insegnare così a me in fondo va bene. Cioè, mi piacerebbe tanto essere un’insegnante a tempo pieno ma se questo non è possibile in questo mondo difficile mi accontenterei di ciò che è possibile. Vedete, per chi è precario come me, che guadagna una media di 600 euro al mese e che non sa cosa farà domani, poter insegnare un anno e poi non essere pagata nei mesi estivi, e l’anno dopo si vedrà, è una festa. È quasi un obiettivo di vita fantastico. Forse è triste che sia così, ma è così, e ci convivo da molti anni e sopravvivo e resisto.

L’eliminazione delle SSIS ha il “nobile” scopo di non produrre altro precariato nella scuola. Bene, grazie. Si può discutere su cosa questo significhi, però in questo contesto non lo farò. Ma chi era in una situazione come la mia? Per accedere alle SSIS ho fatto un concorso, uno scritto e un orale: eravamo un centinaio, siamo passati in venti. Voglio cioè dire a voi e anche a me stessa (perché a volte lo dimentico) che avevo studiato tanto e che sono stata brava. Ho pagato 600 euro di tasse di iscrizione (che, fra parentesi, non ho più rivisto, e così diciamo che ho salutato secco secco uno stipendio mensile). Non solo, il fatto di aver vinto il concorso di ammissione alle SSIS consentiva di poter essere inseriti nelle Graduatorie di cui vi parlavo prima. Iscritti sì, ma con una riserva che avremmo potuto sciogliere una volta conseguita l’abilitazione. Che ironia. Sono in queste Graduatorie ma non posso essere chiamata a causa di questa riserva.
Sentite poi che doppia ironia. Sapete chi ha congelato le SSIS? (sono un numero considerevole, ho scoperto). Chi stava facendo il dottorato o le donne incinte. Quindi paradossalmente si è punito il merito (il fatto di aver vinto sia il dottorato sia le SSIS) e si è tirato un bel calcio in culo alle pari opportunità.

Bene, ho finito questa rabbiosa tiretera. La storia è terminata così, ad ogni modo: le SSIS sono sospese dal 2008, da quest’anno saranno attivati i nuovi percorsi abilitanti che sono più o meno la stessa cosa ma si chiamano TFA (si stanno svolgendo adesso le selezioni nelle Università, forse qualcuno di voi lo sa). Per fortuna noi congelati potremo entrare nel TFA in sovrannumero senza esame. Forse più che “per fortuna” farei meglio a dire “per diritto”. Aspetto con ansia e con speranza questo inizio.
Certo, sono stata svantaggiata: ho perso così quattro anni (di insegnamento, dico) e non per una mia volontà, ed inoltre non posso partecipare al concorso che è stato bandito adesso per la scuola (questo concorso è per il posto di ruolo): non è molto chiaro da quello che si legge sui giornali, ma è solo per chi è in graduatoria, ed è l’ennesimo paradosso, perché io sono in graduatoria, ma di nuovo, senza abilitazione e con la riserva (e di conseguenza non posso partecipare al concorso)!

Non so quanto possa essere chiaro questo post. So che si tratta di un tema un po’ noioso e molto specifico, comprensibile in genere solo a chi è già dentro l’ambiente. Tra l’altro io ho cercato, a fatica, di renderlo il più comprensibile possibile e quindi sono stata anche un po’ imprecisa: le cose sono ancora più complesse.

In ogni caso, sappiate che riesco ancora a rimanere ottimista. Penso che in qualche modo, per qualche ragione, in barba a tutto e a tutti, ce la farò. Ed è con questa nota di vitalità che vorrei salutarvi.

domenica 9 settembre 2012

Io e l'estate 2012 -Post scriptum


Vi scrivo da Varese: fine settimana dai suoceri e informo gli interessati che posso raccontarvi di un’ennesima passeggiata. Dal confine con la Svizzera ieri io e F. ci siamo inerpicati fino a Serpiano e poi abbiamo proseguito fino al Monte San Giorgio (altezza 1096). Una passeggiata faticosissima, tutta in salita (fortunatamente in mezzo al bosco) e della durata complessiva (ossia fra andata e ritorno) di 5 ore, ma che offre uno stupendo panorama sul Lago di Lugano una volta arrivati in vetta. C’era un sole meraviglioso e, nonostante la leggera foschia, il sole illuminava di una luce calda l’azzurro del lago e il verde delle montagne. Devo anche dirvi che la mia abilità montana aumenta passeggiata dopo passeggiata: sulla salita ormai sembro uno stambecco; è sulla discesa che perdo qualche colpo, e, più che sembrare uno stambecco vivo, sembro uno stambecco brasato nella polenta.

Comunque. Siccome sono qui a godermi questa coda dell’estate, mi è venuto in mente di fare una postilla all’ultimo mio post. In realtà, subito dopo averlo pubblicato (e aver fra l’altro ricevuto anche qualche mail da amici citati), mi sono venute in mente un sacco di altre cose che vorrei ricordare e condividere con voi. Innanzi tutto, ho assolutamente dimenticato uno dei must di quest’estate molto fiorentina… il corso di acqua-gym alla piscina del Poggetto con la mia amica P. Allora, l’immagine della mia performance è la seguente: io nell’acqua alta con un galleggiante legato in vita e con una cuffietta sulla testa (non vi dico che sexy); in genere in queste situazioni l’insegnante fa vedere gli esercizi che realizzati da lei, tutta coordinata e leggiadra come una libellula, sembrano pure una cavolata, ma quando li fai tu, non si sa perché, quasi affoghi (nonostante il galleggiante), ti si appannano le lenti e ricadi nell’acqua pesante come una balenottera; in genere in queste situazioni inoltre speri proprio di non incontrare nessuno che conosci e invece ti va sempre male, perché, come volevasi dimostrare, ho beccato un vicino di casa che portava la bambina a nuoto.

Altra gravissima dimenticanza è non aver citato mio fratello. Dunque, è una dimenticanza dovuta dal fatto che quest’estate non ci siamo incrociati molto tra impegni e vacanze e perciò non avevo episodi particolari da raccontare. Ma c’è una cosa che devo assolutamente dirgli e ne approfitto. Quando ho scritto i primi due post li ho testati dicendo del blog a tre persone prima di dirlo a tutti gli altri, sono tre persone importanti per me, e lui (mio fratello, cioè) è stato il mio numero due. Perciò, E., solo per dirti che, anche quando non ci vediamo, anche quando non ci sentiamo, tu sei sempre nei miei pensieri. D’altra parte sono la tua sorella grande, non posso proprio smettere di sentirmi responsabile verso di te.

E ora un paio di episodi a cui ho assistito. Mi piacciono le persone e mi piace ascoltarle e immaginare la loro vita e stupirmi perché ognuno di noi ha veramente un mondo dentro di sé e appena parla lo fa intravedere.  E di quest’estate potrò sempre ricordare due conversazioni memorabili.

1) La prima avviene in treno. C’è un ragazzino sui tredici anni, madre francese e padre italiano, residente a Parigi, che si mette a parlare con i suoi vicini, che sono un ragazzo giovane e un signore anziano, entrambi senegalesi. Il ragazzino fa loro un sacco di domande: è incuriosito dal Ramadan, dall’Islam, dalla preghiera cinque volte al giorno, ed è incuriosito in un modo bello, con quell’apertura onesta di chi non ha pregiudizi e vuole veramente conoscere la persona diversa che ha davanti. Il giovane e l’anziano (che fra parentesi è uguale a Morgan Freeman!) a loro volta sono felici di farsi conoscere, di raccontare della loro religione e dalle loro tradizioni, e lo fanno con disponibilità. Il ragazzino è di straordinaria intelligenza, non si accontenta, e fa domande sempre più specifiche, e loro rispondono, e nelle loro parole c’è una calma dolce e una pacata saggezza che fa davvero invidia. E queste tre persone non parlano dieci minuti, ma da Bologna a Riccione senza mai smettere, e, quando il ragazzino scende, si sbracciano in grandi saluti di amicizia. E io mi convinco di aver assistito a un gran momento di civiltà.

2) La seconda avviene in spiaggia. Sono distesa sul lettino e poco distante da me gioca un gruppo di bambini: sono piccoli ma fra loro ci sono una ragazzina piuttosto bella sui dodici anni (che potrebbe tranquillamente dimostrarne quindici) e un ragazzino alto e carino, probabilmente un po’ più piccolo di lei. Tra i due c’è un certo feeling, che lei gestisce con molta facilità, mentre lui ne è completamente turbato. Lei gli chiede quanti anni abbia, e lui, forse mentendo, le dice che ne ha dodici. Lei non ci crede e, per saggiare la veridicità dell’affermazione, formula la seguente domanda: «Lo sai cosa sono i pronomi relativi?». Lui balbetta imbarazzato qualche cosa, io alzo la testa perché fino ad allora li avevo seguiti distrattamente ma a quel punto volevo proprio vedere chi fosse il genio che aveva partorito un tale decisivo test, e lei, di fronte al silenzio di lui, implacabile continua: «Lo sapevo che non avevi dodici anni. Questo sistema funziona sempre». Certo, in realtà il test non dimostra necessariamente che il ragazzino non abbia dodici anni, ma solo che potrebbe non avere dodici anni o che potrebbe avere dodici anni ed essere un ciuco a scuola. In ogni caso, credo comunque di aver assistito alla notevole ed invidiabile performance di una futura Femmina doc.

Monte San Giorgio 
(Lago di Lugano con il ponte di Melide)


lunedì 3 settembre 2012

Io e l'estate 2012


Estate finita. Ieri sera sono tornata a Firenze e oggi è una variabile giornatina autunnale (al momento piovosa). Com’è andata quest’estate per me? Bè, è difficile rispondere a questa domanda: è stata diversa, senza dubbio. Innanzi tutto, a parte l’ultima settimana di luglio, l’ultima di agosto e i weekend in cui ero al mare, nel mese di agosto sono stata a Firenze e ho insegnato.
Ebbene sì, ho avuto una supplenza in una scuola per stranieri e ho avuto due classi con studenti provenienti da ogni parte del mondo a cui insegnare l’italiano: due americane, una senegalese, due preti slovacchi, una svedese, una cinese, un’olandese, una brasiliana (sembra una barzelletta, lo so! Ma è la verità) e mi sono impegnata veramente a preparare le lezioni, gli esami, a essere vispa e chiara in classe. Nel senso che ho dato tutto il possibile ma posso davvero dire che ho ricevuto altrettanto. Quasi quasi l’ultimo giorno ci schiacciavo un piantino di commozione da quanto mi ero affezionata a tutti! Ho capito quanto mi piace insegnare e quanto mi piacerebbe farlo a tempo pieno (notazione polemica e forse sibillina, ma chiarirò i dettagli nelle Avventure lavorative-parte III di prossima uscita…). E poi avevo paura di subire Firenze ad agosto, sia per la temperatura (sua) sia per la solitudine (mia), e invece (a parte che ero sempre a scuola!) questo tête-à-tête con me stessa non mi è affatto dispiaciuto.
Quindi, ecco qua, direi che di quest’estate ricorderò soprattutto le mie due classi e gli studenti che ho avuto, insieme all’ansia, alla fatica e alla soddisfazione, insomma a questo groviglio caotico di sentimenti che mi accompagnavano ogni giorno.

Però ci sono tante altre cose belle di cui vorrei parlare e che sono legate alle persone a cui voglio bene.
1) La scoperta della montagna con F. Vi ho raccontato già di due gite, ne ho saltata una, che abbiamo fatto nel Mugello, nei pressi del Passo della Sambuca e del fiume Rovigo con tanto di tortelli di patate per pranzo presso il rifugio i Diacci (passeggiata che vi consiglio caldamente).
2) Il Ferragosto con i miei genitori. Ed era importante, perché pochi giorni dopo Ferragosto l’anno scorso è morta mia nonna e, non so perché, ma mi sono detta che questo, cioè poter stare vicina a mia mamma e a mio papà, era anche il mio modo di vivere la presenza della nonna fra di noi.
3) Il weekend a Genova e a Camogli insieme a F. e alla mia amica A. e al suo fidanzato D. È la seconda volta che andiamo a Genova e devo dire che si conferma la mia città italiana preferita (dopo Firenze!). Strano, dal momento che in realtà Genova è sporca e malmessa, con i “caruggi” malfamati e alcuni abbandonati a se stessi, eppure si respira un’aria di mare e di terre lontane e di canzoni di De Andrè che la rendono davvero magica. E quando dai vicoletti si apre la vista del porto, e quando puoi sederti su una delle panchine del porto a leggere il giornale e a vedere le persone passare, bè, quello è il massimo… davvero.
4) La mia amica N. ha raccontato nel suo blog della nostra giornata a San Vincenzo (io, lei e V.). V. conosceva una parte della spiaggia quasi vuota e siamo state tutto il giorno lì: era una giornata di inizio luglio di sole e di vento con il mare agitato, ed è stato bello saltare sulle onde (sembravamo tre bambine di otto anni!) e chiacchierare senza troppi pensieri sulla riva.
5) E, per finire, grazie anche a M., che mi ha portato con la Vespa da Pisa a Marina di Pisa, in un giorno in cui ero di ottimo umore (ma la giratina con la Vespa è stata senza dubbio la ciliegina sulla torta) e a C., che mi ha portato a Torre del Lago in un giorno in cui invece ero di pessimo umore (ma lei – e a onor del vero anche la tintarella che ho preso! – mi ha tirato su).

A volte sono felice, a volte sono triste. E anche quest’estate non sono stata da meno. Ma qui volevo ricordare le cose belle, che sono tali per le persone con cui le ho vissute.

E quest’estate la vorrei ricordare così.


I Diacci: fiume Rovigo


I Diacci: il rifugio

E ora un po' di mare...


Io a Camogli


La spiaggia di San Vincenzo


domenica 26 agosto 2012

Un altro post sull'amore...


Ancora Platone e ancora amore. Sì, perché credo che lo scopo della filosofia sia la ricerca del senso della vita e qual è il senso della vita se non l’amore? Platone lo sapeva, ed è per questo che di amore per la vita e per la conoscenza e per gli uomini e per il mondo creato sono pieni tutti i suoi dialoghi. Non solo, i suoi due scritti letterariamente più belli, il Fedro e il Simposio, sono interamente dedicati al tema dell’amore. 

Il giovane Fedro, protagonista del dialogo omonimo, conversa amabilmente con Socrate, riferendogli un discorso di Lisia, nel quale l’oratore (cioè Lisia) tratta l’amore come capacità di conquistare, come un piacevole intrattenimento, anzi consiglia di non farsi sopraffare dal sentimento per poter continuare con più facilità nell’arte della seduzione. Il discorso di Lisia, concede Socrate, è abile e affascinante, condotto con indiscussa maestria retorica, ma non è in grado di svelarci nulla sull’amore. E così dicendo, conduce il giovane Fedro fuori dalla città, in un paesaggio ameno, alberato e attraversato da un fiume. Non si tratta di una decisione calcolata, ma di un impulso e di un impulso che potremmo ritenere simbolico: come Fedro e Socrate si allontanano dalle strade della città note e più volte percorse, e si addentrano in luoghi che neanche ricordano («Non passiamo di qui» dice Socrate «ma due o tre stadi più avanti dov’è il santuario», «Ah sì» risponde Fedro «Non ci avevo mai fatto attenzione»), così amore altro non è che un impulso ad andare oltre, a tendere verso qualcosa di sconosciuto e inesplorato. Per questo Platone nel Fedro lo definisce una divina mania. Se ci pensiamo bene è un’espressione forte: mania in greco significa pazzia, furore, ma anche folle passione. Folle passione, dunque, però divina: perché è solo con amore che superiamo noi stessi e i nostri confini, che siamo al tempo stesso ancora più uomini e un po’ più vicini a dio. 

E ora spostiamoci al Simposio. Nel racconto di Socrate Eros, ovvero amore, è figlio di Poros e Penia. Poros è espediente, mezzo, risorsa, Penia è mancanza, indigenza, bisogno. Cosa vuol dire? Amore nasce da una mancanza, una mancanza che abbiamo bisogno di colmare. Nasce dalla nostra vulnerabilità, dalla nostra debolezza, forse proprio dal nostro essere umanamente imperfetti. Ma è questa imperfezione, questa debolezza, questa vulnerabilità che paradossalmente ci rendono migliori. Perché la mancanza ci spinge, con ogni mezzo che abbiamo, a cercare. Cercare cosa? La pienezza, penso. Non vogliamo sentirci vuoti e soli, ma vivi. 
Amore è dunque un’inesausta ricerca di conoscenza: dell’altro, del mondo, delle cose, delle emozioni, di sé. Amore ci rende confusi e forti al tempo stesso, smarriti ma pieni di speranza; è quel desiderio di completezza che aspiriamo a raggiungere (e che forse non raggiungeremo mai del tutto, ma che non dobbiamo mai smettere di cercare). Ma è in questa ricerca che sta la vita: perché, solo sforzandosi di conoscere e capire, soltanto mettendosi in gioco e amando, possiamo vivere.

lunedì 20 agosto 2012

Lago di Lugano e Monte Generoso


Sono di ritorno da un fine settimana a casa dei suoceri a Varese. In realtà devo svelarvi che non abitano proprio a Varese città, ma nella provincia, in un grazioso paese situato sul Lago di Lugano. Mio marito, sfidando la sua proverbiale pigrizia, quest’anno si è superato per organizzarmi una serie di attività ludico-sportive e torno a Firenze con le braccia e le gambe rotte.

Venerdì. Gita in canoa con mio cognato Fr. Chiamarla gita mi pare un eufemismo: si è trattata di una vera e propria lezione, perché mio cognato, che è un perfezionista, quando fa le cose le vuol far bene, perciò… tira fuori una barca tre posti dalla società di canottieri presso la quale si allena e chiama un suo amico che insegna canoa ai bambini. Così mi ritrovo mio cognato seduto dietro e il maestro davanti, e mi sono dovuta impegnare per davvero. Pare che mio fratello, quando ha saputo della mia performance, abbia commentato che, con quelle braccine secche, proprio non mi ci vedeva a remare (a dirla tutta, secondo me manco mio cognato e il suo amico maestro mi ci vedevano…) ma a mia difesa vorrei dire che, certo, rimango piuttosto scoordinata, però sono una tipa che non si spaventa né si arrende facilmente. E così ora le mie braccine secche recano i postumi della titanica impresa.

Sabato. Gita di famiglia sul Monte Generoso. Si arriva sul Monte Generoso (1700 metri di altezza, questo è il mio personale record montano) con un trenino svizzero che si inerpica fra verdi colline. Dalla vetta si gode di un bel panorama che permette di abbracciare quasi tutto il Lago di Lugano. Non contenta di essermi stroncata le braccia, ho deciso di aggiungere le gambe: nel primo pomeriggio ho lasciato il gruppo e, insieme a mio marito e a mia cognata, sono scesa a piedi fino a Bellavista, circa 600 metri di dislivello della vetta. Passeggiata stimata in un’ora e 15 minuti, da noi però effettuata in 45 minuti, dato che dovevamo intercettare il trenino che scendeva a valle. La passeggiata (che dunque ho fatto a palla di fuoco, anche se buona ultima del gruppetto: vi ho già detto della mia inesperienza in montagna) si snoda fra pianure verdi e assolate, un ombroso bosco di abeti e un sentiero scosceso. Bellavista è una stazione montana molto carina con un ameno – e carissimo – bar in pietra, alcuni tavoli da pic-nic disposti ai margini del bosco e qualche gioco per bambino proprio ai lati della ferrovia.

Domenica. Nella mattina gita in motoscafo. Ci ha portati un amico di mio suocero molto gentile, e per tre ore ci siamo addentrati nei “misteri” del lago di Lugano. Dico “misteri” non a caso. Nel mio immaginario infatti i laghi sono dei grossi tondi d’acqua circondati dalle montagne. Il Lago di Lugano ha invece una forma particolarmente difficile a descriversi: è come costituito da tanti bracci incastonati fra le montagne e, appena oltrepassi un promontorio, ecco che ti ritrovi in una zona del lago che prima non potevi vedere. Dalla barca abbiamo ammirato il paesino svizzero di Morcote, con la chiesa rinascimentale che domina da un alto terrazzo panoramico; abbiamo guardato la villa dello scrittore Fogazzaro ad Oria, dove per altro è stato girato anche il film tratto dal suo Piccolo mondo antico (Fogazzaro stesso è sepolto a Oria); siamo passati sotto il ponte di Melide, costruito agli inizi del Novecento, che collega le due estremità del lago; abbiamo attraversato una parte della costa nella quale non vi sono né paesi né strade, ma solo case affacciate sull’acqua e  raggiungibili esclusivamente in barca; siamo stati infine nel punto in cui le due parti, quella italiana e svizzera, sono così vicine che il lago forma un piccolo stretto.

Ecco qua. Allego qualche foto della mia tre giorni. Non posso però testimoniare la gita in canoa:  la cosa era troppo seria per portarmi dietro la macchina fotografica e dovrete credermi sulla parola…


Il trenino svizzero che porta alla vetta


Una parte del Lago di Lugano dall'alto


Monte Generoso


Morcote dalla barca


Io (per dimostrarvi che c'ero...)


Una parte di lago incontaminata


Et voilà: a sinistra l'Italia, a destra la svizzera






lunedì 13 agosto 2012

Olimpiadi italiane

Sono appena finite le Olimpiadi. Dopo tutto l’anno di calcio che mi sono fatta avevo voglia di cambiare un po’ e di guardarmi altri sport. E le Olimpiadi hanno tanti sport, tante persone e tante  storie da raccontare e regalare.
Come ogni anno, non riesco a vedere le premiazioni: vi succede anche a voi di commuovervi? Io proprio non mi trattengo, è così bella la gioia genuina di chi vince dopo tanto sforzo e sacrificio, ed è così toccante il momento dell’inno. Non solo italiano, intendo. Anzi, mi piace proprio il fatto che sia possibile sentire l’inno di nazioni diverse, mi piace che sul podio vi siano insieme persone di stati e continenti diversi. In fondo è questo che lo sport dovrebbe fare: unire.

Ma, dopo la notazione cosmopolita, veniamo alla nostra piccola Italia. Non so se avete notato che fra spade pistole e cazzotti ce la caviamo alla grande. Monti ci aveva detto che dovevamo prepararci alla guerra e noi siamo stati di parola: le Olimpiadi hanno dimostrato che abbiamo ottimo tiratori scelti, nel corpo a corpo fra pugilato e judo abbiamo qualche cartuccia da giocarci, e se per caso venisse voglia di tornare al duello, bè… lì non c’è proprio partita: mettiamo in campo la triade Di Francisca Arrigo Vezzali (e ci possiamo pure permettere la riserva Salvadori) ed è fatta.
A dire il vero, trovo più appassionanti e divertenti gli sport di squadra. Ieri abbiamo vinto un sofferto bronzo nella pallavolo maschile, e perso la finalissima della pallanuoto (peccato, anche se l'argento è comunque un buon risultato), ma vorrei spendere due parole sul beach-volley. Bellissimo. Uno per la localizzazione: tutte le volte che la telecamera si allargava dal campo al contesto, ovvero dalla sabbia a Whitehall era da brivido. E poi la coppia delle grintose ragazze italiane con le unghie smaltate di rosso bianco verde mi faceva veramente simpatia, peccato non siano arrivate in fondo. Sul fioretto a squadra non dico nulla, ma sentire il ticchiettio delle spade e lo stadio urlare in coro (e si sentiva benissimo in televisione) «Italia Italia» è stata davvero un’emozione.

In realtà la mia passione sportiva è l’atletica, perché ho un giovanile – dunque remoto – passato da corritrice di 800 e 1500, ebbene sì (con mediocri risultati, comunque). Qui, si sa, l’Italia non eccelle, anche se va riconosciuta la bravura di due atleti neanche di primo pelo: il trentacinquenne bronzo del salto triplo Fabrizio Donato (anche un po’ fortunato, ma non guasta) e l’altrettanto trentacinquenne madre di famiglia magrissima maratoneta Valeria Straneo, che, certo, non si è aggiudicata il podio, ma il suo ottavo posto per me vale, per la difficoltà della gara, che si gioca interamente sull’allenamento e sulla testa, come una medaglia.

E poi c’è la nota nera delle nostre Olimpiadi italiane: il caso Schwarzer. Purtroppo non ho visto la conferenza stampa e non ho letto nessun articolo su di lui. Lo so che ha sbagliato, che ha imbrogliato, ed è giusto punirlo anche severamente, ma onestamente mi dispiaceva un sacco: a me lui sta simpatico, mi pare un bravo ragazzo e,in quei cinque minuti in cui ho visto lui e poi il padre (ma non potevate lasciarlo in pace, almeno il padre?) piangere in tv, mi ha fatto proprio un’umana pena. È che a volte le pressioni esterne, il desiderio di essere all’altezza insieme alla fragilità e alla vulnerabilità, ci conducono a commettere i più inutili e gravi errori. È difficile arrivare primi. Lo si può ottenere con lo sforzo, la fatica, l’umiltà, la concentrazione, la volontà. Più difficile ancora è rimanere primi, perché allora si comincia a credere che non basta lo sforzo, non basta l’umiltà né la concentrazione né la volontà né lo sforzo e serve di più e ancora di più.
Ma la cosa più difficile è rendersi conto che non si è migliori se si è primi o peggiori se non lo si è. Siamo sempre e comunque noi stessi, siamo sempre la stessa persona, che a volte riesce, a volte riesce meno, a volte non riesce per niente. La differenza fra essere migliore o peggiore (sempre che esista questa differenza) non la fa una singola prestazione, ma la capacità di rialzarsi. Succede di fallire. Succede di sbagliare. Ma la vita è un cammino troppo lungo per non regalare altre possibilità e l’errore più grande per me è il pensare di averle esaurite tutte: questo, nello sport come nella vita, non è mai così.

E ora basta, perché, quando dico queste cose, poi finisco per prendermi troppo sul serio, e di fare una specie di maestrina saggia proprio non mi va.


domenica 12 agosto 2012

In Treatment

Questa è un’estate strana per me: ci sarebbero tante cose da dire e da raccontare ma ho deciso di farlo alla fine del mese. Oggi comunque sono al mare nelle Marche dalla mamma e dal papà, e fare la figlia nella mia cameretta adolescenziale (due mini quadretti degli Impressionisti sopra il letto, una radiolina del Mulino Bianco risalente agli anni Ottanta, e un poster di Ligabue datato 2002… e qui mi fermo per il vostro benessere!) è davvero rassicurante. Mi faccio un po’ coccolare e mi riapproprio per qualche giorno della mia identità di figlia e della mia vita da figlia: a volte ci vuole.

Comunque, questo post è per dirvi che finalmente è tornata in TV la mia serie preferita, In Treatment. In realtà viene trasmessa alle comodissime ore 23.45, un orario proprio adatto a me che notoriamente indosso il pigiamino alle 21 e alle 22.30 potrei già ronfare. Ma, si sa, è proprio una virtù dei palinsesti televisivi rendere facile a guardarsi ciò che è inguardabile e difficile – finanche impossibile – a guardarsi ciò che è bello, intelligente, di ottima qualità.

Io sono una fan di alcune serie tv americane. La femmina doc che è in me si è esaltata con le Casalinghe disperate e con Sex and the City, ho trovato splendidamente costruito e ben congegnato il plot del Dottor House, nel quale per altro è stato inventato uno dei personaggi più straordinari che la TV abbia regalato, e ho amato Lost, con il suo mix di mistero e di metafisica. Ora attendo con ansia il ritorno di Mad men. E nel frattempo mi godo, in quest’estate strana, la mia numero uno: In Treatment, appunto.

Di cosa parla In Treatment? Paul Weston (ovvero un carismatico Gabriel Byrne) è uno psicologo e la sua vita è scandita dagli appuntamenti con i suoi pazienti. Noi pubblico incontriamo i suoi pazienti con lui: in questa serie tutti i lunedì viviamo il dramma di Sunil, mitico signore bengalese costretto a trasferirsi in America dopo la morte dell’amata moglie e a subire una convivenza forzata e difficile con il figlio e l’americanissima nuora; i martedì conosciamo Frances, famosa ex-attrice di teatro tornata in età avanzata a solcare il palcoscenico ma con inspiegabili perdite di memoria; i mercoledì entriamo nella testa di Jesse, giovanissimo omosessuale problematico, con un rapporto complesso con i genitori adottivi; i giovedì è Paul ad andare in analisi perché, come ogni psicologo che si rispetti, è troppo profondo e sensibile per non logorarsi di domande e per – di conseguenza – non incasinarsi la vita.
In Treatment è questo. Non c’è niente di più. Sono 25 minuti di seduta, in una stanza chiusa in cui la macchina da presa indugia sui volti dei pazienti, spesso confusi, sempre teneramente fragili, che parlano seduti sul divano (pacato, composto, ma lacerato da un dolore profondo Sunil; inquieta, paradossalmente insicura, volutamente sopra le righe Frances; acuto e brillante, instabile e sboccato Jesse) e sul volto di Paul Weston, fascinosissimo grazie a quelle rughe attorno agli occhi, calmo, attento e rassicurante, autorevole e accondiscendente quanto basta, che chiede: «Come ti senti?», che coglie ogni sfumatura, e che riesce a conquistare la fiducia – o l’adorazione – dei suoi pazienti.

C’è una stanza. Ci sono delle persone. E c’è la parola. Quella parola profonda, capace di scavare nell’anima, di descrivere emozioni, di permettere la conoscenza: quella parola che vale la pena sentire. Non credo serva molto di più per realizzare un buon prodotto televisivo. Trovo bellissimi e commuoventi quei rari momenti in cui le persone parlano veramente di sé e questo è In Treatment. Ve lo consiglio.
Non aspettatevi eventi esterni, non vi saranno. Ma questo non vuol dire che non vi siano colpi di scena: ogni nuova consapevolezza di sé – che i pazienti di Paul vivono e sperimentano nella sua stanza – è in fondo e sempre una spaesante rivelazione, capace di gettare nuova luce su loro stessi e sul mondo. Per i pazienti è un colpo di scena. E, credetemi, lo è anche per noi.  

mercoledì 25 luglio 2012

Le mie avventure lavorative - Parte II


La seconda puntata delle mie avventure lavorative è dedicata alla filosofia. Lo so, lo so, sulla discutibilità di questa scelta ho già commentato, ma posso anche assicurarvi che tra le persone a cui voglio più bene e che stimo di più molte sono legate alla filosofia. Le mie amiche C. e M., tanto per iniziare, il mio amico Fi. e poi i miei tre maestri di vita, il mio prof del liceo (il grande responsabile – o colpevole?, questione di punti di vista – della mia scelta iniziale, quella dell’Università! Diciamo che ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto riuscire a trasmettere l’amore per la filosofia come sapeva farlo lui), il prof con cui mi sono laureata (che potrei ascoltare tipo a bocca aperta, offuscata da tanta sapienza e capacità di affabulazione, per ore) e il prof che mi ha seguito per il dottorato. A lui e agli anni di dottorato a Siena è rivolto questo post.

Riprendiamo l’intreccio. Dopo aver vinto la borsa di ricerca e l’esame di ammissione per la scuola di specializzazione all’insegnamento (SSIS per brevità) sono stata costretta a fare una scelta. Insieme per legge non si potevano fare, per cui ho sospeso (in gergo congelato) la SSIS, convinta – o forse meglio usare la parola speranzosa – di poterla seguire appena finiti gli anni di dottorato. Bene. Sappiate già che non è stata una scelta senza conseguenze. Ma questo in un’altra puntata. Nelle Avventure lavorative parte II solo cose belle.

Non voglio essere noiosa, quindi non intendo parlarvi del tema di ricerca, che, come avrete immaginato, riguarda Platone. Solo che così è un po’ inesatto: si tratta di una specie di confronto fra un dialogo di Platone e una tragedia di Sofocle. L’ho un po’ banalizzato ma non è importante, era solo per giustizia nei confronti della tragedia greca, a cui magari dedicherò un post più avanti.
Comunque degli anni di dottorato ricorderò lunghissimi pomeriggi in Biblioteca Nazionale a leggere qualunque cosa potesse avere la minima attinenza con quello che stavo studiando e a cercare di scrivere qualcosa di vagamente sensato. In Nazionale sono stata bene, una specie di seconda casa; diciamo che dall’aspetto non sono quello che si dice “un topo da biblioteca” (infatti avevo dei serissimi problemi con le mie scarpe con il tacco che facevano troppo casino battendo sul pavimento! Per non parlare dell’estate: ho dovuto un po’ rinvigorire il mio armadio, che non comprendeva tanti vestiti adatti al sacro tempio dello studio), ma l’apparenza inganna: vi assicuro che sono una tipa finanche secchiona, e il silenzio e la luce che entra dalle finestre grandi mi hanno sempre aiutato a concentrarmi, e qualche pausa caffè con qualche amico nel momento giusto a distrarmi.
Ma soprattutto ricorderò le illuminanti chiacchierate con il mio prof. In realtà chiacchierate è parola grossa. Avete presente Socrate con i suoi “seguaci”? Socrate è lì che dice: «Ma tu lo sai cos’è la virtù?», il povero interrogato non ne ha la più pallida idea e spara una immensa bischerata, così Socrate lo imbecca: «Ma non credi che sia così e cosà?», e poi per tutto il resto del dialogo Socrate fa domande che già contengono una risposta a presa di culo, e il poveretto risponde sempre: «Certo», «Eh sì», «È proprio vero!». Ecco, uguale. E certamente nel gioco delle parti io non ero Socrate. Scherzi a parte, il mio prof mi ha dato tantissimo. Non potevo capirlo lì per lì ma lui mi ha arricchito, mi ha permesso di crescere e di essere più consapevole, sia nella ricerca sia nella conoscenza in generale. Tutte queste conversazioni mi costringevano a pensare di più, a dubitare, a costruire, a ricostruire, a scrivere, a riscrivere.

E così sono arrivata alla fine. Con il dottorato i miei rapporti con l’Università si sono chiusi (non con il mio prof, però, che mi aiuta ancora e a cui va tutta la mia incondizionata riconoscenza), ma senza rimpianti, non volevo fosse la mia strada. Mi importa essere arrivata bene alla fine. E così è stato. Questo è davvero un capitolo felice e luminoso della mia vita, sia nell’inizio che nella fine, che mi lascia diversi bei ricordi, qualche storia su Platone che sono qui a raccontarvi e la consapevolezza che dalla filosofia, poi, in fondo in fondo, ho ricevuto sempre il meglio.