domenica 28 dicembre 2014

io e il parto - III puntata

La fase espulsiva (quella cioè nella quale si spinge per far uscire il piccolino dalla pancia) è durata circa due ore, forse qualcosa di più. Sebbene sia stata dolorosa, sfiancante e distruttiva, decisamente preferibile al travaglio. L’espulsione funziona suppergiù così: appena arrivano le contrazioni, che però adesso non fanno più tanto male, tu devi spingere, spingere come una pazza, con tutta la forza che hai, come se dovessi fare la cacca (e infatti, pare che l’abbia fatta due volte, una consapevolmente, l’altra me lo ha detto F. dopo, io non me n’ero accorta. Nota trash). Tra una spinta e l’altra, soprattutto la seconda ora (la prima ero rinvigorita dalla fine del travaglio), mi demoralizzavo e continuavo a dire: «Non ce la faccio. Non ce la posso fare». E qui interveniva l’ostetrica che mi ha seguito per il parto (bravissima), che riusciva davvero a farmi rialzare, dicendo sempre: «Certo che ce la fai. Sei bravissima. Tra poco vediamo se ha i capelli» (in verità questi capelli non si sono mai visti, perché la Coty è nata senza; in ogni caso era un inganno bello e buono perché la testa non si è vista se non nelle tre o quattro spinte finali).

La prima cosa buffa dell’espulsione è che tu vai in sala parto e senti urlare e dire cose inimmaginabili dalle altre donne che partoriscono nelle sale parto accanto alla tua. E non sai che presto quelle urla e quelle cose inimmaginabili usciranno anche dalla tua, di bocca. Un’altra cosa buffa è che tu pensi di stare sdraiata a gambe aperte e spingere (come si vede nei film) e invece no! Questo succede solo alla fine. In verità per due ore spingi dalle posizioni più estreme e impensabili: ho cominciato seduta sul WC, per finire impiedi attaccata al letto, passando per uno sgabellino. E poi si rassicurino i mariti o i compagni che hanno paura di assistere o che non sanno come comportarsi eccetera. Non c’è tempo per la paura, o per il disagio, perché dovete stare sul pezzo. F. doveva partecipare attivamente, non solo confortandomi e incitandomi, ma anche arreggendomi, sollevandomi, tenendomi per le spalle, massaggiandomi la schiena e cose del genere.

Io non ho fatto l’epidurale. Dicono che con l’epidurale non riesci a controllare le spinte e quindi può succedere che spingendo troppo ti spacchi la schiena e che l’uscita per il bambino sia troppo traumatica. Sono felice pertanto di non averla fatta, perché Coty Cò si è presa tutto il tempo per venire al mondo; e proprio verso la fine, quando ero alle prese con le ultime spinte, l’ostetrica mi ha detto che la piccola era sveglia ma tranquillissima, sembrava non patire per niente la discesa. È uscita rosea, poco chiazzata di sangue, con i suoi occhi azzurri e le gambine lunghe. Bellissima. La mia bambina. La nostra bambina.


È vero tutto quello che dicono sul parto. Appena la vedi, c’è solo lei. Sparisce la fatica, il dolore, ed incredibilmente dimentichi tutto; non sai nemmeno come sia possibile, ma lo rifaresti di nuovo. Solo per rivivere quell’attimo magico in cui un capino piccolo piccolo emerge. E ti sembra di non aver mai visto niente di più bello, e ti sembra di non aver mai amato nessuno fino a quel momento. Allora, tu non sei più incinta, non sei più la stessa persona di prima, ma sei una mamma. È il miracolo della vita. Quasi una magia. 

sabato 27 dicembre 2014

Io e il parto - II puntata

La notte del ricovero iniziano le contrazioni, ma sono blande. Molto peggio i crampi mestruali. Una fittarella passeggera ogni dieci, anche venti, minuti. E così anche la mattina, sporadiche, sparse, poco dolorose. Ma ad un certo punto, per favorire la dilatazione (ero lentissima e invece era opportuno mi sbrigassi, dato che Costy era lì dentro senza più molta acqua!), il medico mi somministra una sorta di cremina magica... E dalle 3 fino alle 10 di sera mi sembra di morire. Tra una contrazione e l'altra perdevo i sensi, non dico altro. E c'hai freddo. E poi c' hai caldo. E poi vuoi vomitare. E poi ti dicono di stare impiedi e di muovere il bacino, ma tu lo fai un paio di volte e ti sembra ancora peggio. Allora ti dicono di respirare e di stare appoggiata al letto con il sedere in su, che il dolore dovrebbe essere meno forte, e tu li vorresti mandare tutti a quel paese, perché non è vero, non credeteci, non è assolutamente vero. Almeno sdraiata svieni meglio.

Alla fine però non svieni neanche più, perché non c'è il tempo, e puoi soltanto urlare. E non pensi neanche più a niente, solo ti chiedi se finirà o anche se morirai perché se continua un dolore così dubiti che potrai vivere. Non pensi più alla pancia, non pensi più alla tua piccolina, pensi solo al dolore e speri ardentemente che finisca.

E poi queste contrazioni finiscono. Finiscono davvero. E tu sei lì. Viva. Un po' stanchina a dirla tutta, ma viva. E questo ti rinvigorisce improvvisamente. Non so come, ma l'idea che tu lo abbia affrontato ti fa sentire improvvisamente una specie di eroina, e questo ti dà l'energia per la seconda parte del parto, l'espulsione.

venerdì 12 dicembre 2014

Io e il parto - I puntata

Da quando sono mamma, ho scoperto che il racconto sul parto è un argomento di conversazione dei più amati (fra le mamme, intendo). E ho anche capito che l'interesse sale se
1) il parto è stato naturale (senza cesareo per intenderci)
2) hai partorito in circa 2 ore, cioè con un travaglio praticamente inesistente (tipo sei andata in bagno perché avevi un po' di mal di pancia e invece c'era il pupetto che premeva per uscire, quasi quasi lo facevi in macchina, eccetera)
3) hai partorito in circa 2 giorni con un travaglio infinito e tra dolori lancinanti, con un'espulsione lunghissima ma senza poi finire nel cesareo (altrimenti l'interesse delle altre mamme diventa compassione e questo fa vertiginosamente scendere l'attenzione verso il tuo racconto)

Bene. Posso orgogliosamente ed eroicamente affermare che appartengo al gruppo 1 e al gruppo 3. Io entro in ospedale alle ore 19 del 17 agosto dopo la rottura delle acque, Coty Cò viene alla luce alle ore 1.15 di notte del 19 agosto. 

Il 16 agosto mi ricordo che io e F. andammo in piscina. Era una giornata calda, e mi piaceva molto stare a mollo. Praticamente andavo senza tregua dalla vasca per bagnarmi al bagno per fare pipì. La piccoletta non si muoveva molto gli ultimi giorni, probabilmente perché di posto ormai ce n'era poco, ma premeva in modo impressionante con il suo capino sulla vescica e aveva spessissimo il singhiozzo. Comunque, la sera del 16 le parlai, come facevo quasi tutte le sere. Entravo nella mia settimana numero 39. Le dissi che ero pronta. Che era stato bellissimo averla lì per tutto quel tempo, ma che ora volevo tanto conoscerla, e anche il suo papà voleva conoscerla.
La mattina vado in bagno e mi accorgo che è avvenuto il distacco del tappo mucoso. Il tappo mucoso, come insegnano le ostetriche al corso preparto (sono una tipa molto diligente e sono andata a quasi tutti gli incontri), è costituito dal muco gelatinoso, rosa e marroncino, che fino a quel momento chiudeva il collo dell'utero isolando la cavità uterina dall'ambiente esterno. Dicono che sia un segnale per indicare che il parto è molto vicino. E io so che è così, perché so che la mia piccolina mi ha ascoltata.
La giornata prosegue lentamente. La mattina io e F. andiamo a fare un po' di shopping, passiamo il pomeriggio a guardare Grey's Anatomy (ebbene sì, abbiamo trascorso tutto il mese di agosto, appena tornati dalle vacanze e prima che nascesse Coty Cò a spararci puntate di questa serie TV, dalla prima alla terza stagione, perché non l'avevamo mai vista e noi su queste cose siamo un po' seriali, ovvero ci fissiamo, per dirlo meno gentilmente). La sera avevamo deciso di andare a mangiare una pizza fuori. 

Come un elefante sgraziato (a causa della panciona) mi alzo dal letto per raggiungere l'armadio e indossare il poco che riuscivo ad indossare ma improvvisamente una quantità d'acqua fuori dalla norma mi bagna le gambe, le ginocchia, i piedi e fa una pozzetta sotto di me. Quando sei in gravidanza, ti chiedi delle cose assurde, fra le quali : "ma me ne accorgerò che ho rotto le acque?" Bene, qui ve lo dico. Non c'è il minimo dubbio. Non ha niente a che fare con la pipì, è praticamente come se ti rovesciassero un secchio tra le gambe, come se ti aprissero un rubinetto. E poi l'acqua non scende una volta sola, ma continua a scendere per tutta l'ora successiva.
Comunque. Ho subito un moto di panico (mi passa in fretta, in verità. Col senno di poi, altro che brivido di panico, dovevo essere terrorizzata!!! Meno male che si è così impreparati a ciò che succederà!). Balbetto come una gallina: "F. ho rotto le acque!". Lui in queste cose è bravissimo, e mi tranquillizza subito, prende la borsa con le mie cose, e andiamo insieme verso la porta. E poi, verso l'ospedale.

mercoledì 10 dicembre 2014

Autobus e dintorni

Quando ho pensato a questo post mi è venuto in mente l’acronimo che ci scrivevamo sul diario alle medie e che così recita: ATAF Associazione Trabiccoli Arrugginiti Fiorentini.
Scherzo, ovviamente. L’ATAF è la linea di trasporti che regola il servizio pubblico fiorentini, gli autobus che girano per Firenze, per capirci. A me piace l’autobus, mi è sempre piaciuto, perché garantisce una posizione di osservazione sul genere umano privilegiata: seduta o impiedi, osservo ascolto e invento storie sulle persone che viaggiano assieme a me. Anche con la Coty viaggiare in autobus è uno spasso: innanzi tutto, ci fanno sempre sedere (perché le persone sono mediamente gentili, che se ne dica) e poi anche lei è una curiosona come me, percui passiamo il nostro tempo a volgere lo sguardo di qua e di là.

Detto questo, vorrei segnalare alcuni problemi, incongruenze, fastidi, chiamateli come volete, che mi hanno innervosito da un annetto a questa parte. Eccoli qua:

1) Il biglietto elettronico. Firenze si gloria di essere una delle prime città d’Italia ad avere introdotto il biglietto elettronico: lo puoi acquistare inviando un messaggio con il cellulare a un numero apposito. Ok, bravi. Ma potreste spiegarci come mai costa 1.50, ben 0.30 euro in più di quello cartaceo? Chi volete che lo faccia se costa di più? E soprattutto perché mai costa di più? Non si dovrebbe incentivare a usare il biglietto elettronico, se non altro per questioni ecologiche e ambientali?

2) La carta agile. La carta agile è un tesserino magnetico comprensivo di una decina o ventina di corse che puoi usare al posto del tradizionale biglietto ed è vantaggiosa in termini economici. Un giorno di qualche anno fa la carta agile sparisce misteriosamente dalla circolazione. Poi torna allegramente ma con una variazione ignorata dalla maggior parte dei viaggiatori. Prima della sparizione, potevi con la carta agile vidimare il tuo viaggio e anche quello di altri viaggiatori insieme a te (nel senso che se passavi più volte il tesserino sulla macchinetta  scalava più corse). Al momento del suo ritorno, la carta agile è diventata completamente personale, ovvero vale per un viaggio solo, per intenderci se viaggi con un’altra persona anche lei deve prendersi una carta agile oppure un biglietto. Non so la ragione del cambiamento. Ma non è questo il punto. Il punto è che la macchinetta sembra segnalare più corse, non una sola. Nel senso che se tu avvicini la tessera alla macchinetta lei dice: corsa valida o qualcosa di simile; se la riavvicini, dice di nuovo: corsa valida,  e tu pensi che ne abbia scalata un’altra, invece è sempre la tua! E poi questa trasformazione non è stata pubblicizzata in nessun modo: non c’è scritto sull’autobus, né alle fermate, né sulla carta agile stessa, io non ho incontrato nessun operatore ATAF che abbia divulgato la notizia. Perché? Lo chiedo perché sono fioccate multe, e non vorrei proprio che qualche malizioso pensasse che non sia un caso…
A questo proposito leggetevi la testimonianza piuttosto interessante che vi linko qui

3) I controllori. Lungi da me fare di tutta l’erba un fascio, per carità. Ma ho assistito a scene non proprio edificanti. Ora vi racconto come io e mio fratello abbiamo preso la multa: saliamo, il bus è pieno e rimaniamo alle porte, alla fermata successiva la gente scende, avanza, si disperde, insomma, raggiungiamo le macchinette e facciamo il biglietto; contemporaneamente sale in controllore e ci fa la multa perché non lo abbiamo fatto appena saliti. Hai voglia a spiegargli che prima eravamo pigiati come sardine, niente da fare. Mi accusa pure di essere una furbina, e mi viene proprio da ridere: sono talmente furba che mio marito mi chiama Gino la Volpe, e a presa di culo, ovviamente. Non solo. Ho visto fare una multa a una signora anziana con degli occhialoni spessi che senza accorgersene aveva vidimato il biglietto due volte nello stesso spazio e di sicuro era in buona fede, ma non c’è stata pietà. Ho visto pure fare una multa a una ragazza che aveva un chiaro disturbo cognitivo.

Allora, io vorrei solo osservare questo. Il controllore per definizione controlla. Controllare significa esaminare attentamente e/o ispezionare. Ma non è un sinonimo di giustiziare. 

domenica 30 novembre 2014

Eraclito e qualche aforisma

Polemos di tutte le cose è padre e di tutte il re

Questo è uno degli aforismi di Eraclito, il mio filosofo preferito prima di Platone. Eraclito in verità ha fama di uomo super antipatico, arrogante e presuntuoso, fama che gli deriva da una serie di affermazioni contro il volgo (apparteneva a una famiglia nobile, si dice addirittura avesse rifiutato la carica di re di Efeso), da lui ritenuto rozzo e ignorante.
Quanto lui è insopportabile, tanto la sua filosofia è affascinante. Scrive aforismi di assoluta bellezza, soprattutto mi piacciono quelli dedicati all'anima umana, tra i quali: "Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini della psiche: tanto profonda è la sua vera essenza", oppure "Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo". Il primo allude alla complessità dell'uomo, il secondo al cambiamento: abbiamo un mondo dentro di noi, affascinante e complicato, spesso sconosciuto a noi stessi, e poi ci modifichiamo ed arricchiamo ogni giorno, perché ogni nuova esperienza ci rende diversi da quello che eravamo ieri.

Ma cosa vuol dire l'aforisma che ho messo ad esergo di questo post? Chi è polemos? Polemos in greco significa guerra. Ma attenzione... In Grecia polemos non intendeva solo lo scontro militare, ma anche la contesa, il conflitto, lo scambio dialettico.
Pertanto con questa affermazione Eraclito intende dire che la realtà (intesa come tutto ciò che esiste) si mostra sempre attraverso l'opposizione di termini contrapposti: ogni cosa non è mai da considerarsi nella sua unicità, ma esclusivamente in relazione a un elemento che la nega. Non c'è l'amaro senza il dolce, o il giovane senza il vecchio, né il sano senza il malato, e neppure il caldo senza il freddo (sono tutti suoi esempi). Questa spiegazione rimanda a uno dei concetti cardine della filosofia eraclitea, quella che è indicata comunemente come "l'armonia degli opposti".
Ma spiegare polemos solo in questo modo credo sia riduttivo. Come sempre, secondo me, la filosofia va applicata a un contesto umano e comunitario. È dal vivere all'interno di una città, è nel rapportarsi con gli altri che Eraclito potrebbe avere appreso che tutto avviene secondo opposizioni. Io sostengo un'idea, l'altro da me ne sostiene un'altra, ed è proprio dalla relazione fra noi due, dallo scambio dialettico, dal dialogo anche come scontro che scaturisce la verità. Altrimenti come spiegare un altro aforisma di Eraclito che sostiene: "si deve sapere che polemos è comune, e che la giustizia è contesa, e che tutto avviene secondo contesa e necessità"? Eraclito qui mostra che polemos è una condizione sana; intende dire che polemos, nel senso di lotta, rivalità, contesa, è alla base della stessa formazione del concetto di giustizia. Perché la giustizia, secondo Eraclito, non è qualcosa di acquisito a priori, ma qualcosa che si impara, dallo scambio, dalla differenza, dalla relazione, anche qualora questa relazione sia oppositiva. E perché no, è vero anche che la giustizia mai la apprenderemmo se non facessimo esperienza del suo opposto. E vi lascio infatti con le sue parole:

Di giustizia non vi saprebbero il nome se non ci fossero le cose ingiuste

martedì 25 novembre 2014

La stella Renzi

Quello che sto per scrivere è in assoluto il mio post più idiota. Direi che sarà anche tra i dieci post più idioti della rete. Ma dovevo condividere con voi questa scoperta. Ve lo dico di già: perdonatemi.

Riconosco di essere un po' fuori dal mondo da quando è nata Coty Co. Non seguo molto la politica. Leggo poco il giornale. E soprattutto non guardo mai il TG, perché la sera guardiamo tutti Peppa Pig (sulla quale sono peraltro preparatissima, conosco puntate e personaggi a perfezione). Non vedo neanche più Crozza perché la sera metto a letto la piccoletta e dopo sono spesso troppo cotta per rialzarmi. Prometto di riprendermi. Datemi qualche altro mese e poi tornerò appieno nel mondo civile e sociale.

Però mentre ero su Youtube con la topina ho trovato in un cartone (molto carino e adatto a bimbi piccoli per altro!) il sosia di Renzi.




Che ve ne pare? Non trovate che la stellina dentona gli somigli?? 



lunedì 17 novembre 2014

Ancora a Coty... Perché non resisto!

Eh sì. Non resisto. Devo tornare a parlare di lei. Vivere con la mia piccola Coty è un continuo rimanere sospeso fra il passato e il futuro. Ogni giorno Coty cambia e non fai che chiederti come sarà domani, cosa succederà fra un mese, come sarà fra un anno, e poi quando inizierà la scuola e quando sarà un'adolescente (a questo è meglio non pensare!!). Con trepidante gioia guardi al giorno che verrà. E alla bambina che diventerà. Al tempo stesso non fai che ripensare ai momenti passati insieme, e provi un'indicibile nostalgia per quegli attimi irripetibili. Penso a quando l'ho vista la prima volta. Lunga, con gli occhi azzurri, che mi si è arrampicata addosso e appoggiata alla tetta. Penso alle nostre passeggiate assieme, lei piccolissima che dormiva nel marsupio in collo a me. Penso alle sue prime risate. A quando ha detto mamma. E poi papà. A quando gattonava: orgogliosa di se, dopo 4 o 5 zampettate, si metteva seduta, ti guardava e salutava con la manina.

Voi mi direte di godermi il presente invece di guardare al futuro e al passato in questo modo. E io vorrei rispondere che trovo questo presente davvero sopravvalutato. Come dire, il presente è troppo breve. Un attimo prima è futuro, un attimo dopo è passato. E poi cosa vorrebbe dire? Cosa faccio, mi godo il presente e non penso? Ma io non posso fare a meno di pensare. E allora, davvero, preferisco essere così. Una sognatrice piena di speranze, che guarda al futuro perché non ha paura. E al tempo stesso, una romantica nostalgica, che guarda al passato perché sa che il passato determina la mia storia e il mio essere.

Ma in verità, bambina mia, io trovo meraviglioso pensare a te. Sono orgogliosa dei progressi che fai ogni giorno. Sono felice di vederti così luminosa e bella. Sono commossa quando vieni da me e dal papà a darci i bacini. Ti sono riconoscente per aver reso speciale il mio passato.  E sono pronta ad accompagnarti nel futuro, fino a quando tu vorrai, e nel modo in cui vorrai.

sabato 15 novembre 2014

Una storia che non possiamo raccontare

Sapete che leggere è una mia grande passione, e, anche se adesso ho meno tempo per farlo, cerco comunque di ritagliarmi qualche momento. È di lettura che vorrei scrivere oggi, di un libro che non solo mi è piaciuto molto ma che mi ha regalato anche tanti stimoli per pensare.
Si chiama Una storia che non possiamo raccontare: l'autore, Stephen Grosz, è uno psicanalista inglese che raccoglie in questo libro alcune storie dei suoi pazienti. Sono storie in cui le persone si confrontano con il lutto e il dolore, con le menzogne che raccontano agli altri e a se stessi, con un'infanzia difficile, con intricati rapporti familiari, in una parola con i problemi che tutti noi, in quanto esseri umani, ci troviamo prima o poi costretti a fronteggiare, che li si racconti a uno psicanalista oppure no.
Sono storie brevi, ad ogni paziente Grosz dedica tre o quattro pagine, ma in quel piccolo spaccato di esistenza vive non solo il singolo, con il suo pensiero, le sue emozioni e il linguaggio con cui li esprime, ma in un certo senso l'umanità tutta. Nel particolare vive l'universale, direbbe Aristotele, e così è.
Non vi racconterò nessuna delle storie, per quelle vi lascio alle pagine di Grotz, quello che vorrei dire qui oggi sono le riflessioni che questo libro ha suscitato in me.

Innanzi tutto, la perdita. Questo è un libro sulla perdita. Su come la perdita (ed intendo per perdita non solo la morte ma anche la separazione) è intimamente legata alla nostra natura umana. Segna la nostra esistenza, perché prima o poi tutti noi la vivremo. E ne abbiamo comprensibilmente paura, perché che qualcuno che amiamo un giorno se ne vada per sempre, bé, è qualcosa che lascia senza respiro. Le persone di queste storie spesso affrontano una perdita. Una parte di noi se ne va con lei. Ma noi restiamo.    E continuiamo. E, come dice Dubus nella frase ad esergo del libro: "Riceviamo e perdiamo, e dobbiamo sforzarci di conquistare la gratitudine; e con essa abbracciare di tutto cuore quel po' di vita che rimane dopo le perdite". Riceveremo ancora, statene pure certi.

Poi, il cambiamento. Dice Grosz che un suo paziente una volta candidamente gli ha detto: "Voglio cambiare ma non se questo comporta un cambiamento". Spesso restiamo intrappolati in una situazione, impigliati nei nostri pensieri, vogliamo uscirne e dunque cambiare, ma al tempo stesso non vogliamo rinunciare a quella situazione e a quei pensieri, perché quella situazione e quei pensieri sono la nostra storia, siamo noi. Cambiare vuol dire perderli. Vuol dire perdere una parte della nostra storia. Vuol dire perdere una parte di noi. E sebbene talvolta sia inevitabile, è un percorso doloroso rinunciare a se stessi.

Ed infine, la comunicazione. Le persone di questo libro hanno delle emozioni a cui non riescono a dar voce. E il compito dello psicanalista è dare un linguaggio a quelle emozioni. È trasformare il confuso silenzio dentro di noi in parola significante. Perché i nostri comportamenti sono ben lontani dal rappresentare totalmente noi stessi. Siamo molto di più di quello che facciamo. E inoltre, anche comportandoci nello stesso modo di un'altra persona nella medesima situazione, non è detto che le motivazioni siano uguali. C'è tutto un mondo irrazionale dentro di noi che ci rende più complessi e inafferrabili di quanto noi stessi crediamo.

La vita del singolo è come un libro in via di scrittura. Un entusiasmante libro in cammino. Solo che talvolta non riusciamo a usare le parole giuste. In questo libro Grosz cerca per i suoi pazienti le parole mancanti. Ed è soprattutto per questo sforzo interpretativo che vi consiglio la lettura.
Io, dal canto mio, ogni giorno cerco le parole per scrivere al meglio il libro della mia vita.

martedì 4 novembre 2014

Filosofia per me

Nella prima lezione di filosofia in terza ho chiesto cosa significhi 'filosofia'. Quasi tutti sanno che l'etimologia della parola è 'amore per il sapere' o 'amore per la sapienza', ma ci si sofferma poco a pensare a cosa si intende sia per 'amore' sia per 'sapere'.
Approfitto di questa riflessione per dirvi che cos'è per me la filosofia.

Cosa significa 'sapere'? Io credo che il sapere sia il pensare bene, l'impegnarsi a riflettere, lo sforzarsi ad analizzare ogni situazione. Significa non fermarsi all'apparenza delle cose, ma guardare, interpretare, scendere nel profondo. Significa riconoscere che ogni situazione, come ogni persona, è complessa; e la nostra capacità dovrebbe essere quella di accettare tale complessità e di scandagliarla, o perlomeno di provarci. Io credo che il sapere non sia qualcosa di dato, ma qualcosa continuamente in divenire, sfuggente ed enigmatico, e che la filosofia dev'essere una ricerca, una tensione, uno sforzo che avviene attraverso la capacità più umana che vi sia: il pensiero.
Per questo si parla di amore. Cos'è l'amore se non una tensione costante verso l'altro, un tentativo di comprenderlo sempre in atto?

Ma la filosofia per me è anche condivisione del sapere. Altrimenti i greci non avrebbero usato il suffisso 'filos' che significa amico. Mi spiego meglio. I greci avevano tre termini per indicare l'amore. C'era l'eros, l'amore carnale, passione, sensuale. C'era l'agape, l'amore compassionevole, altruista, generoso, che poi sarà ripreso dalla tradizione cristiana. E poi c'era la philia. L'amore che coincide con l'amicizia, quell'amore che nasce dalla stima, dalla frequentazione, dalla condivisione di interessi, dal dialogo. Diversamente dall'eros che vuole possedere egoisticamente l'altro (io sono tua e tu sei mia, dicono gli amanti e questa affermazione esprime con forza il loro desiderio), e sempre diversamente dall'agape che è invece darsi completamente all'altro quasi annullando se stesso, la philia è, direi, tranquilla condivisione. È amare qualcuno senza interesse. È volere il suo bene, perché il suo bene coincide con il mio. È quell'amore che nasce dal dialogo, dallo scambio, dalla vicinanza intellettuale.
Per questo filosofia, e non agapesofia o erosofia, secondo me. Perché la filosofia non è l'individuale ricerca del sapere, ma è la capacità di condividere il sapere. Di rendere il sapere comune. Di vivere il sapere, ovvero il retto pensare, come uno scambio, un dialogo, un confronto dialettico.
La filosofia in questo senso non è soltanto monito o piuttosto incoraggiamento a riflettere e pensare, sfida all'intelligenza che non deve accontentarsi mai di risposte precostituite, ma è anche stimolo a confrontarsi, a riconoscere l'altro, ad ammettere che il vero sapere è solo quello che nasce e matura assieme.

martedì 28 ottobre 2014

Io e la pancia - parte 3

Coty Cò se ne stava dunque nella pancia a testa in su, spesso con il sederino appoggiato sull'utero e le gambette belle distese in avanti. Muoveva la testa e anche i piedini ma di spostare il suo bel sederino e di fare da sola il capitombolo non ne voleva proprio sapere. Una principessina, un po' come la mamma.

Così, dopo l'incursione nella medicina cinese (fallimentare), ci è rimasta un'ultima possibilità prima del cesareo. La manovra.
Io non so proprio come mai mi sono incaponita così per fare il parto naturale, non vi dico quanto mi sono maledetta durante il travaglio; in ogni caso alla settimana 37 vado dal dottore ginecologo incaricato. Fa un'ecografia, verifica che la bimba stia bene e che vi sia sufficiente liquido amniotico e mi dice di presentarmi il giorno dopo alle 8 digiuna (era un tipo pratico di poche parole). Ora, dire digiuna a una donna incinta sarebbe già sufficiente per farla desistere ma non mi faccio scoraggiare, e non mi scoraggio neanche il giorno dopo, anche se ho aspettato fino alle 11 (avrei mangiato pure la sedia, non ne potevo più!).
Entro nella stanza deputata, il dottore mi collega all'ecografo e mi dice: "50% riesce, 50% no. In un 1% dei casi la bambina va in tachicardia o ci sono problemi con il cordone e bisogna fare il cesareo d'urgenza. Va bene?".
Io tra me e me penso che 1) dopo la gravidanza parlerò in percentuali, per quante ne ho sentite durante, 2) 50% ancora non mi era capitata (riuscita della moxa 75% e ovviamente noi eravamo nel restante 25%), 3) quell'1% non mi spaventava granché. Insomma se al cesareo ero destinata, che si facesse subito, così non ci pensavo più.
Così rispondo bella coraggiosa:"va bene". Il dottore prosegue:"non è dolorosa ma fastidiosa si. Dura 2 minuti. Tu respira. Se senti male dimmelo".

La manovra si fa dall'esterno. Il dottore mette le mani sull'addome e, premendo sulla pancia, spinge il sedere della principessa per farlo girare. Allora, lì per lì penso: "è vero che dura non più di 2 minuti. Non è vero che é fastidiosa, è proprio dolorosa". Però, certo, dopo il parto, rivedi un po' il tuo concetto di dolore ed effettivamente può essere ritenuta appena appena fastidiosa.
Comunque, questa volta abbiamo beccato la percentuale giusta. La piccolina, grazie all'intervento del dottore, era girata con il capino verso il basso, pronta per uscire. Anche la mia pancia cambia e scende vertiginosamente verso il basso. 2 settimane dopo Coty Cò è pronta per questo mondo... Ma questa è un'altra storia, che vi racconterò in un'altra puntata.

Aspettando Costy... XXXVII settimana

mercoledì 22 ottobre 2014

Io e la pancia -parte 2

Se i miei primi tre mesi (anche quattro) di gravidanza ho dovuto combattere con la nausea, gli ultimi tre (anche quattro) ho dovuto combattere con la pipì. Dovevo continuamente andare in bagno. Il peggio del peggio era quando tornavo da Pisa: il piano della pipì prevedeva che 1) andassi in bagno subito dopo le lezioni 2) andassi nel bagno della coin sulla strada di ritorno perché è vicina alla stazione 3) corressi dalla stazione di Firenze fino a casa, che fortunatamente è vicina, sperando di non incocciare in un semaforo rosso, di trovare immediatamente le chiavi in borsa eccetera (odio il bagno del treno regionale... o non funziona o lo devi cercare o è sporchissimo) 4) mi precipitassi dalla porta di casa al WC senza parlare né salutare F.
Tutto questo confidando nella regolarità del servizio Trenitalia, perché 15 minuti di ritardo non erano sostenibili per la mia vescica. Eh lo ammetto. Un paio di volte non ce l'ho fatta. Ma non mi dilungo in questa narrazione che è già trash così.

Oltre a questo, tutto procedeva regolarmente. Ogni mese ecografia (vedi), la piccoletta si faceva sentire, la pancina diveniva sempre più panciona, io stavo bene. Il tempo dell'attesa è carico di desideri sospesi che riempiono il cuore di gioia.
Senonché una percentuale della sfiga l'abbiamo beccata anche qui. Niente di drammatico, stavolta. Semplicemente, la Coty Cò non voleva proprio girarsi. Lei se ne stava con il capino su e le gambe giù e non ne voleva sapere di mettersi nella posizione per l'uscita (che è esattamente al contrario). In questi casi si prenota un cesareo. Oppure... Oppure si cerca di far girare la creatura in qualche modo. Ed è quello che abbiamo fatto.

Il primo tentativo consigliato dalle ostetriche che mi seguivano (bravissime, le penso sempre con tanto affetto) è stato rivolgersi alla medicina cinese, in particolare modo a una pratica che si chiama Moxa. La Moxa consiste nell'avvicinare alle dita dei piedi (al mignolo per l'esattezza) un sigaro fumante costituito da una sostanza speciale chiamata polvere di artemisia. Per la corrispondenza degli organi, principio della medicina cinese, al mignolo del piede è legato il ventre: il calore emanato dal sigaro penetra nel corpo, il feto dovrebbe sentirlo e questo dovrebbe spingerlo a girarsi.
Non vi dico che avventure questa moxa: per trovare i sigari ci siamo spinti nel quartiere cinese, il deputato alla terapia era F. che passava 15 minuti immobile come una statua con i sigari in entrambe le mani, per di più questa polverina puzzava e dovevamo metterci pigiati nel terrazzino di casa esposti agli occhi di tutti.
La moxa ha fatto effetto? No. Coty Cò se ne stava lì beata con la testina su.
E allora siamo passati al secondo tentativo. La manovra.

Testimonianza di vita vissuta. La Moxa sul balcone


Fine seconda puntata

domenica 19 ottobre 2014

Io e la pancia - parte 1

La pancina è venuta fuori tutta assieme la settimana XVI esattamente quando sono sparite le nausee. Mi sono svegliata la mattina e c'era lì qualcosa, qualcosa che prima non si vedeva. La mia piccolina cominciava a prendere posto dentro la sua mamma.

Io penso che la gravidanza sia qualcosa di magico. Sei uno, perché sei sempre tu. Ma sei anche due, perché custodisci una vita dentro di te. Poi, quella vita prenderà forma, diventerà persona, diventerà qualcuno diverso da te, con le sue virtù e i suoi difetti, con la sua individualità, come è giusto che sia. Ma in quel preciso, magico momento, io e lei siamo state una cosa sola. Andavamo insieme a scuola, prendevamo insieme il treno per Pisa; io nuotavo in piscina e anche lei nuotava beata nella sua piscina personale. Le parlavo o la accarezzavo attraverso la pancia e lei rispondeva con un calcetto o alzando il capino (lo so perché la Cò ha tenuto fino all'ultimo la testa il più vicino possibile alla sua mamma, è stata podalica fino a 10 giorni dal parto).

Che gravidanza ho avuto? Bè, ottima da un punto di vista fisico, nel senso che non ho mai avuto il mal di schiena, non mi sono gonfiate le gambe, niente aumento di peso eccessivo, insomma, niente di tutto quello che lamentano solitamente le donne incinte. Però io e F. abbiamo incrociato un paio di quelle percentuali di sfiga che in una gravidanza si possono incrociare.

Dicono che una percentuale irrisoria (il 4%) presenta dei problemi all'ecografia morfologica, quella che si fa al quinto mese per vedere lo sviluppo degli organi e quella in cui peraltro ti dicono il sesso del nascituro. Ok, 1 coppia su 25, dunque. Noi. La piccoletta aveva una cosa che si chiama intestino iperecogeno. Questo marker, ovvero questo segno ecografico, significa solo che il suo intestino risulta più bianco delle ossa. In sé non è nulla, quasi sicuramente non è nulla, ma potrebbe - seppur raramente - essere legato a una patologia importante. Pertanto il mese di aprile è stato carico d'ansia per noi, che, per scongiurare grossi rischi, abbiamo  dovuto fare una serie di esami non senza patemi d'animo (peraltro io ero risultata portatrice della malattia - anche qui incrociando la percentuale della sfiga - ma F. no, dunque tutto ok, perché bisogna essere entrambi portatori per trasmetterla, ma non vi dico che paura); da lì siamo poi entrati per sicurezza nella procedura della gravidanza a rischio, perciò mi sottoponevo a un'ecografia al mese per verificare che la crescita di Coty Coty fosse regolare. E lo era. Anzi, la piccoletta aveva sempre delle belle gambette lunghe e un gran testone! La dottoressa mi diceva sempre che la Cò era una ballerina: si muoveva e si disponeva nelle posizioni più impensabili, si metteva i piedini in bocca o li prendeva con la mano, spesso si copriva la faccina come per non farsi vedere.

All'inizio ero preoccupata. Ho passato tutto il mese di aprile a googolare su internet 'intestino iperecogeno'. Poi ho deciso di smettere. Insomma, lei era lì, dentro di me, ed il meglio che potessi fare per lei era proteggerla e trasmetterle la mia gioia. Nessun altro in quel momento poteva fare questo per lei, toccava solo a me. Ecco. È stato in quel preciso istante, quando ho sentito questa responsabilità, che ho capito che ero mamma per la prima volta.

Fine prima parte 

mercoledì 15 ottobre 2014

Consiglio di lettura: Raccontare la periferia 4


Cari amici, questo post e quello che lo precede, vogliono servire da collegamento fra la tipa che ha lasciato il blog poco dopo aver saputo di essere incinta, e la tipa che lo riprende adesso, da mamma. Non so proprio dirvi se è la stessa persona. Di certo, sono diventata più forte, più serena, anche se più emotiva (lo avrei detto impossibile, ma invece no; se prima piangevo per quasi tutto, dalla gravidanza in poi ormai sono in balia degli ormoni e non piango più per quasi tutto ma indiscutibilmente per tutto!!!). 
Sto divagando. In ogni caso Platone non l'ho dimenticato ed è in arrivo anche un post su di lui. In questo però volevo semplicemente copiarvi l'appendice al volume che ho in parte curato come redattrice insieme alla mia collega C. quando lavoravamo al V. (ricordate? Vedi). Il volume è uscito successivamente (ovvero quando noi eravamo ormai a spasso), è pubblicato da Polistampa, e i racconti sono belli; certo, io sono legata affettivamente, ma in modo spassionato ve lo consiglio. 
Con questo post vorrei prendere congedo dagli anni che ho passato al V. Grazie di cuore al mio responsabile, a cui devo moltissimo. E grazie ai miei ex colleghi, alcuni dei quali sono tra i miei amici più grandi, sempre e comunque.  Ed ecco qua...

Abbiamo lavorato come collaboratrici al V. e, fin da quando siamo entrate, rispettivamente sei e cinque anni fa, abbiamo seguito ai margini il premio Raccontare la periferia. Ora che la nostra collaborazione è terminata, ci fa piacere congedarci dal V. – al quale dobbiamo incondizionatamente la nostra formazione lavorativa nel campo della cultura – scrivendo una nostra nota a questo volume. Perché abbiamo seguito minuziosamente e amato questa quarta edizione.
Sono arrivati una ottantina di racconti e, avendo partecipato alla preselezione, ed essendo state presenti alla selezione dei vincitori da parte della giuria, possiamo dirvi che ci eravamo affezionate a molte storie, che la stessa giuria è stata in difficoltà nella scelta dei premiati e menzionati.
Al tempo stesso siamo orgogliose di questo volume che abbiamo contribuito, in qualità di redattrici, a pubblicare. Da esso emergono, nitidi e chiari, i molti volti con cui è possibile leggere la periferia: personale e collettiva, luogo fisico o luogo dell’anima, diversità e integrazione, fatica e speranza, desolazione e novità. La nostra premura è di comunicare al lettore di questo volume che ogni testo inviato, anche se non è rientrato fra i premiati o menzionati, abbia comunque rappresentato un’istantanea molto rappresentativa della realtà sociale che noi chiamiamo genericamente ‘periferia’ e che, ora come tra qualche decennio, continuerà a costituire un documento storico di chiara importanza. Ogni racconto meriterebbe per questo di essere letto e ci auguriamo pertanto che un giorno possa nascere un archivio di tutti i testi inviati, grazie al quale poter attingere a tutte queste esperienze così intense e spesso volutamente trascurate dai più.

Nel racconto della vincitrice, S. B., il viaggio in autobus alla periferia di Prato del narratore diviene un modo per riappropriarsi dolorosamente della propria identità e di un difficile rapporto con la madre. Frammenti di una giovane balena stanca descrive in modo ironico e spesso ermetico l’amore che due ragazzi provano per il loro quartiere, le Piagge, nonostante i suoi tanti difetti e grazie ai suoi inestimabili pregi. Elena, Kiara e la patente, di C. P., è invece una storia delicata di integrazione e di amicizia fra due persone molto diverse, un’anziana un po’ sola e malata e una giovane madre cinese da poco in Italia.
Ma anche i racconti che hanno avuto la menzione dalla giuria indagano le periferie in modo sempre diverso e originale. Con Verso la strada che non esiste è la coralità di un gruppo di abitanti della campagna pisana che insegna a impegnarci per preservare l’integrità del territorio in cui abitiamo. Cani e Transitalia raccontano da due punti prospettici opposti, il primo di un poliziotto, il secondo di una prostituta trans, l’incapacità di adattarsi alle regole e alla vita che entrambi sentono di non aver scelto per se stessi. In Camminata, attraverso un lungo monologo interiore, il narratore – che sta passeggiando lungo il “suo” fiume – rivive la propria infanzia e adolescenza, facendosi trasportare dai pensieri. Periferia per chi? è un’inchiesta giornalistica in cui sono riportate le esatte parole di chiunque abbia voluto definire il proprio concetto di periferia. In Ugi, la strada, l’aeroporto e il fiume si racconta la giornata ordinaria del protagonista in un imprecisato quartiere di periferia: emergono droga e illegalità, ma anche un sentimento genuino di amore e protezione verso la famiglia e la speranza – chi lo sa – di un nuovo amore. In Un uomo speciale l’autore tiene insieme con abilità storia collettiva (la nascita del quartiere periferico dell’Isolotto) e storia individuale (le vicende tragiche ma raccontate sempre in punta di piedi e con una certa ironia del protagonista, Egidio Filippini). Ed infine, forse il testo più intenso e significativo seppur nella sua brevità, Melina, la descrizione della vita in un carcere femminile, con le sue regole subdole e i tempi titanici, da parte di una donna che, con educazione e modestia, ci insegna a vedere un futuro anche attraverso le prospettive più buie.
Le ultime parole le vorremmo però spendere per i vincitori del Premio speciale, attribuito alla Scuola Media Paolo Uccello. Non è solo un ottimo lavoro, ma è molto di più; fate attenzione ai nomi dei ragazzi, tutti provenienti da paesi diversi, leggete le loro parole, guardate le loro foto, e vi accorgerete di quello che può essere la periferia: integrazione, unione, sogno e fantasia. Con i soldi della vittoria i ragazzi hanno potuto comprare i pennarelli per realizzare il murales che vedete qui sotto.
Questa è la ragione per cui è nato, e ci auguriamo continuerà a esistere, il premio Raccontare la periferia, ed è con questo bel dipinto che vorremmo simbolicamente lasciarvi e augurarvi un buon viaggio nelle periferie di questo libro.





venerdì 10 ottobre 2014

Se vi viene voglia di leggere il mio libro...


Vi chiederete perché non ho scritto in questo lungo tempo. Credo sia perché l'esperienza di un bambino è così forte e sconvolgente nella sua bellezza che al momento non vuoi raccontarla. D'altra parte sei in grado di parlare di poco altro. Ma poi, piano piano, non vedi l'ora di condividere e anche di rivivere la gioia la commozione la preoccupazione e tutte le emozioni così strette dentro di te, e prende sempre più strada il desiderio di tornare alla scrittura. Contemporaneamente, quel mondo esterno che prima ti sembrava essersi improvvisamente trasformato, e del quale  a onor del vero ti importava il giusto, torna ad assumere i suoi contorni consueti: gli amici, la scuola, qualche bel libro, qualche bel film, qualche notizia politica.
E così eccomi. Vi chiederete cosa ho fatto in questo anno e mezzo. Bè principalmente ho allattato dondolato e scarrozzato la mia piccola Cò. E prima di questo mi sono ammirata e accarezzata la pancia chiedendomi anche - fra le altre cose - se l'ombelico sarebbe tornato come quello di un tempo (la risposta è sì, torna come prima!).

Però devo dire che nonostante questo ho messo a segno due obiettivi importanti.
1) Mi sono abilitata all'insegnamento (vedi) e così ora sono una vera prof che ha una sua piccola supplenza annuale. Sul corso di abilitazione potrei raccontarne molte ma, forse grazie alla pancia (ero incinta mentre lo frequentavo), l'indignazione era un sentimento sconosciuto al mio vocabolario e assente nella mia testolina, perciò ricordo con affetto i viaggi in treno fino a Pisa, dove si svolgeva il corso, e con ancora più affetto la mia classe dove tutti erano, oltre che simpatici e disponibili, bravissimi e pluripreparati (credo pure di alcuni prof che ci facevano lezione. Ma niente polemica).

2) Ho pubblicato il mio libro! Tratto dalla tesi di dottorato (vedi). E siccome in verità ho scritto questo post solo per farmi un po' di pubblicità (ci capitasse qualcuno per caso...) e anche per fare un po' la ganzetta intellettuale vi allego foto della copertina e vi ricopio la quarta (sempre di copertina). Il libro é su Platone ovviamente. Il mio mentore. Et voilà!




Nomos e Polis fra l'Antigone e il Critone. Momenti del tragico nel mondo antico.
Di Maddalena Mancini

Nomos, la legge, e Polis, la città, sono i due poli intorno ai quali si snodano le riflessioni di due opere dell'Atene classica : l'Antigone sofoclea e il Critone platonico. L'una, la tragedia, e l'altra, il dialogo filosofico, presentano entrambe un personaggio impegnato a dare la sua risposta di fronte al problema dell'autorità della legge e della libertà dell'individuo.
L'autrice, rileggendo le interpretazioni avanzate su queste due opere, e attraverso un percorso assieme storico e filosofico, affronta i nodi teorici e concettuali che la tragedia e il dialogo propongono: il complesso rapporto fra individuo e legge, la nascita della coscienza morale, l'universalità dei diritti umani, la ricerca filosofica come fondamento della speranza degli uomini in un futuro migliore, la consapevolezza della tragicità dell'esistenza.


Un sicuro best seller direi. Insomma, se proprio vi venisse voglia di darci un'occhiata...

martedì 7 ottobre 2014

A Coty con amore

Ho deciso di tornare. Non è stata una decisione improvvisa, l'ho maturata lentamente, in questi giorni, mentre la Cò (o Coty Coty come si chiama lei) fa il riposino pomeridiano. Perché sì, é nata, ad agosto 2013, e perciò ha pure 13 mesi. E sì, è una bimba, ma io questo l'avevo sempre saputo. E sì, è stupenda stupenda stupenda, e potrei continuare all'infinito a scrivere questo aggettivo. Ma proverò a descrivervela. La Cò è bionda e spelacchiata per lo più, con gli occhi misteriosamente grigio-verdi ereditati dai nonni. Il taglio degli occhi e la bocca sono uguali ai miei e quando ci vedono insieme dicono tutti: quanto ti somiglia!, ma appena vedono il papà tutti cambiano idea e dicono che è identica a lui. La Cò è gioiosa vitale e luminosa, dolce intelligente e vivace, è curiosa, osserva tutto e nulla le sfugge; fa dei grandi discorsi in una lingua misteriosa che conosce solo lei formata da 'tiammemme' 'giamme giamme' 'bibibi' 'rororo'. La Cò adora disegnare -e non solo sui fogli!!!-, le piace guardare e sfogliare i librini, indicando con la mano gli oggetti di cui vuole sentirsi dire il nome, quando sente la musica balla agitando le gambe appoggiata al divano, saluta con la manina quando fa la passeggiata e tenta approcci - piuttosto maldestri ma si premia l'intenzione - con altri bambini. Alla Cò piace dondolarsi sull'altalena: aggrappata alla corda come le abbiamo insegnato piega la testa al cielo, guarda le nuvole e le foglie, e poi ride sbattendo i piedini. La Cò quando è stanca o vuole essere coccolata si mette il pollicino in bocca: io la prendo in braccio e la stringo a me e lei rimane lì, ricarica le batterie facendomi dei pizzicorini con le unghie, e poi vuole scendere e tornare a giocare. La Cò è anche orgogliosa: vuole fare le cose senza aiuti, e si arrabbia quando la imbocchi e lei ha deciso di mangiare da sola (facendo dei gran disastri) o quando cerchi di distoglierla da un passatempo discutibile come sbatacchiare in terra il telecomando della TV. La Cò fa dei grandi meravigliosi dolcissimi sorrisi quando vede avvicinarsi la mamma o il papà e poi ti prende per mano per farti vedere a cosa stava giocando.
Io non so che mamma sono né che mamma sarò. Sono in ansia per tutti gli errori con i quali costellerò la nostra esistenza e so già che saranno inevitabili. Ma Winnicott diceva che l'importante è essere una madre sufficientemente buona e la sufficienza, va là, alla fine dei conti, spero di strapparla. So però che figlia è lei per me e non posso già che ringraziarla per tutto l'amore che ogni giorno, ogni istante, mi consente di provare; per tutta la meraviglia per il mondo che mi ha fatto riscoprire (la luna e le stelle, gli alberi e le foglie, e perfino i piccioni); per la pienezza della vita che mi si apre dentro non appena la vedo. Perciò, bambina mia, grazie. Ti prometto che farò del mio meglio. Ti prometto che ti darò la mano tutte le volte che avrai bisogno nel cammino della vita. Non sarò diversa da come sono, ma ti insegnerò quello che posso, e ti donerò me stessa ma non perché tu possa essere come me, al contrario, perché tu possa scegliere di essere te.