mercoledì 25 luglio 2012

Le mie avventure lavorative - Parte II


La seconda puntata delle mie avventure lavorative è dedicata alla filosofia. Lo so, lo so, sulla discutibilità di questa scelta ho già commentato, ma posso anche assicurarvi che tra le persone a cui voglio più bene e che stimo di più molte sono legate alla filosofia. Le mie amiche C. e M., tanto per iniziare, il mio amico Fi. e poi i miei tre maestri di vita, il mio prof del liceo (il grande responsabile – o colpevole?, questione di punti di vista – della mia scelta iniziale, quella dell’Università! Diciamo che ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto riuscire a trasmettere l’amore per la filosofia come sapeva farlo lui), il prof con cui mi sono laureata (che potrei ascoltare tipo a bocca aperta, offuscata da tanta sapienza e capacità di affabulazione, per ore) e il prof che mi ha seguito per il dottorato. A lui e agli anni di dottorato a Siena è rivolto questo post.

Riprendiamo l’intreccio. Dopo aver vinto la borsa di ricerca e l’esame di ammissione per la scuola di specializzazione all’insegnamento (SSIS per brevità) sono stata costretta a fare una scelta. Insieme per legge non si potevano fare, per cui ho sospeso (in gergo congelato) la SSIS, convinta – o forse meglio usare la parola speranzosa – di poterla seguire appena finiti gli anni di dottorato. Bene. Sappiate già che non è stata una scelta senza conseguenze. Ma questo in un’altra puntata. Nelle Avventure lavorative parte II solo cose belle.

Non voglio essere noiosa, quindi non intendo parlarvi del tema di ricerca, che, come avrete immaginato, riguarda Platone. Solo che così è un po’ inesatto: si tratta di una specie di confronto fra un dialogo di Platone e una tragedia di Sofocle. L’ho un po’ banalizzato ma non è importante, era solo per giustizia nei confronti della tragedia greca, a cui magari dedicherò un post più avanti.
Comunque degli anni di dottorato ricorderò lunghissimi pomeriggi in Biblioteca Nazionale a leggere qualunque cosa potesse avere la minima attinenza con quello che stavo studiando e a cercare di scrivere qualcosa di vagamente sensato. In Nazionale sono stata bene, una specie di seconda casa; diciamo che dall’aspetto non sono quello che si dice “un topo da biblioteca” (infatti avevo dei serissimi problemi con le mie scarpe con il tacco che facevano troppo casino battendo sul pavimento! Per non parlare dell’estate: ho dovuto un po’ rinvigorire il mio armadio, che non comprendeva tanti vestiti adatti al sacro tempio dello studio), ma l’apparenza inganna: vi assicuro che sono una tipa finanche secchiona, e il silenzio e la luce che entra dalle finestre grandi mi hanno sempre aiutato a concentrarmi, e qualche pausa caffè con qualche amico nel momento giusto a distrarmi.
Ma soprattutto ricorderò le illuminanti chiacchierate con il mio prof. In realtà chiacchierate è parola grossa. Avete presente Socrate con i suoi “seguaci”? Socrate è lì che dice: «Ma tu lo sai cos’è la virtù?», il povero interrogato non ne ha la più pallida idea e spara una immensa bischerata, così Socrate lo imbecca: «Ma non credi che sia così e cosà?», e poi per tutto il resto del dialogo Socrate fa domande che già contengono una risposta a presa di culo, e il poveretto risponde sempre: «Certo», «Eh sì», «È proprio vero!». Ecco, uguale. E certamente nel gioco delle parti io non ero Socrate. Scherzi a parte, il mio prof mi ha dato tantissimo. Non potevo capirlo lì per lì ma lui mi ha arricchito, mi ha permesso di crescere e di essere più consapevole, sia nella ricerca sia nella conoscenza in generale. Tutte queste conversazioni mi costringevano a pensare di più, a dubitare, a costruire, a ricostruire, a scrivere, a riscrivere.

E così sono arrivata alla fine. Con il dottorato i miei rapporti con l’Università si sono chiusi (non con il mio prof, però, che mi aiuta ancora e a cui va tutta la mia incondizionata riconoscenza), ma senza rimpianti, non volevo fosse la mia strada. Mi importa essere arrivata bene alla fine. E così è stato. Questo è davvero un capitolo felice e luminoso della mia vita, sia nell’inizio che nella fine, che mi lascia diversi bei ricordi, qualche storia su Platone che sono qui a raccontarvi e la consapevolezza che dalla filosofia, poi, in fondo in fondo, ho ricevuto sempre il meglio.

sabato 21 luglio 2012

Due film che mi sono piaciuti


In questi giorni ho recuperato la visione di alcuni film che non ero riuscita a vedere quest’anno. E vi scrivo perché vorrei consigliarvene due: il primo è un film d’amore veramente triste e tristemente vero (Blue Valentine), e il secondo è un film apparentemente scandaloso e di – secondo me – straordinaria intelligenza (Shame).

Blue Valentine racconta della fine di un amore. Ryan Goslin e Michelle Williams si sono amati tanto, hanno costruito una famiglia felice, ma ormai qualcosa se n’è andato, e in quella che sarà la loro ultima notte insieme (in un motel, per ritrovare una passione che non riescono a ritrovare), attraverso dei flash back, rivivono l’inizio della loro storia. E così, con un montaggio alternato, vediamo com’erano queste due persone (solare lui, complessa lei, a loro modo generosi entrambi) e come sono oggi (disperatamente dolce lui, ostile e trattenuta lei), vediamo la nascita di una tenerezza calda e di un amore sincero e insieme una fine lenta ma inesorabile, quasi al di sopra delle loro forze. Lui in realtà cerca in ogni modo una riconciliazione, lei è più fredda, salvo poi pentirsene, riavvicinarsi ma poi allontanarsi ancora. E mentre nel ricordo si scambiano le luminose promesse di un amore eterno, nella realtà si stanno lasciando. «Mi dispiace», dice lei. «Farò tutto quello che vuoi» dice lui. «Mi dispiace», ripete ancora lei. «Avevi promesso», dice ancora lui.

I due attori, Ryan Gosling e Michelle Williams, sono straordinari. Lui (non so se l’avevate visto nell’altrettanto meraviglioso Drive) restituisce al suo personaggio al tempo stesso una feroce disperazione e una grande bontà d’animo, lei (la Jen di Dawson’s Creek: tra parentesi, non ho mai capito come fosse possibile che ad ed essere contesa fra i due protagonisti maschili della serie fosse quella saputella e lagnosa Joey e non lei, sveglia, complicata, altruista e al contrario sfortunatissima in amore) regala un’interpretazione sempre tirata per rendere più credibile l’esasperazione del momento finale. Giocato sulla personalità dei due personaggi, il film ci dice una cosa tanto triste e tanto vera. L’amore può finire. Si potevano intuire i problemi che avrebbero potuto avere queste due persone? Non lo so – qualche cosa del film lo lascia intendere, seppure molto velatamente – ma non conta: è indubbio che si amavano. È indubbio che le loro promesse, nel momento in cui se le sono scambiate, fossero sincere. Erano felici insieme e il bisogno l’uno dell’altro era più forte di qualunque altra cosa. E allora, dov’è andato quest’amore? Perché non hanno provato a ritrovarlo o a farlo risorgere? Il fatto è che ci hanno provato, ma non ci sono riusciti. A volte succede così, si prova qualcosa di fortissimo, e poi questo sentimento se ne va.

Di Shame molti avranno sentito parlare. Il protagonista, un fichissimo Michael Fassbender, è un malato di sesso. La sua giornata è perfettamente organizzata tra il lavoro e una serie di appuntamenti sessuali di ogni tipo (potremmo dire che Fassbender non è un pervertito casuale ma un tipo molto meticoloso e preciso!), sulla cui descrizione vi risparmio (anche se vorrei rassicurarvi sul fatto che non ci sono scene poi raccapriccianti né compiaciute, solo nella parte finale una decina di minuti che si potrebbero definire espliciti). Comunque, a un certo punto è costretto a sorbettarsi l’arrivo della sorella, ragazza fragile, disperata, a rischio suicidio, con storie d’amore improbabili  e molto infelici, che gli si mette in casa in pianta stabile. La sorella, che è di fatto proprio la sua immagini speculare (tanto è cinico e trattenuto lei, tanto è emotiva e pazza lei), lo costringe a confrontarsi con se stesso e con la propria “vergogna”. D’altra parte, sono la risposta opposta a uno stesso misterioso trauma che li rende figli della stessa famiglia e vittime della stessa situazione: trauma che intelligentemente non sarà mai svelato ma che rimane sullo sfondo  per tutto il film.

Shame, nonostante tutto, riesce a far trapelare un messaggio positivo. Fassbender fa simpatia con questa sua perversione e con i suoi tentativi di essere diverso. Viene fuori nella sua umanità, quando piange (in due momenti del film: il primo è un pianto silenzioso e nascosto, il secondo potente e liberatorio) e anche nel suo apparentemente impossibile (eppure c’è) rigore morale (nello straordinario dialogo con la sorella, attori bravissimi entrambi). E poi c’è il finale, sul quale non vorrei svelare nulla, ma che, forse, potrebbe regalare a questo personaggio una sorta di seconda possibilità: di perdonarsi?, di essere diverso?, di vivere magari senza colpa questa sua perversione?, chi lo sa. Non so se si può dire che è un film romantico (questo è troppo, perfino per me!!!) ma certo non è un film cattivo. E questo, si sa, fa sempre stare meglio.

Se poi non vi ho convinti… bé, appello alle femmine doc: direi che Fassbender tutto dettagliatamente nudo rimane comunque un’ottima ragione per vedere questo film.

domenica 15 luglio 2012

Quello che il mito della caverna ha regalato a me


«Gli uomini sono come in sotterranea dimora che ha la forma di una caverna. E questa caverna presenta l’ingresso spalancato e rivolto alla luce […]», scrive Platone, «Qui fin da fanciulli, in ceppi le gambe e il collo, gente costretta a restare in quel luogo e a guardare soltanto davanti a sé; incapaci a causa delle catene di volgere la testa a giro». Questo è l’inizio del più celebre mito platonico, noto come il mito della caverna. Il racconto procede così: alle spalle degli uomini vi è un fuoco acceso, che proietta le ombre degli oggetti, presenti nella caverna, davanti agli uomini. Non avendo modo di girarsi, gli uomini - ipotizza Platone - crederanno che le ombre che vedono al muro siano la verità: non solo penseranno che l’ombra dell’innaffiatoio sia l’innaffiatoio vero (l’esempio l’ho inventato io!), ma che le ombre degli uomini siano gli uomini stessi. In particolare, per capirci, se io fossi legata con il collo rivolto verso il muro senza poter guardare il mio corpo, mi convincerei che io sono la mia ombra, quella proiettata davanti a me, e niente più di questo.
Platone continua così il suo racconto: «E ora considera il caso di qualcuno che venga liberato da quei ceppi, […] improvvisamente gira il collo, cammina, volge lo sguardo in alto, verso la luce. In tutte queste operazioni, il nostro prigioniero non mancherebbe di provare dolorose impressioni». Abituato al buio, le pupille del nostro uomo proveranno dolore, un dolore misto al desiderio di conoscenza: prima vedrà meravigliato gli oggetti, poi scorgerà la luce esterna, si spingerà incuriosito fuori dalla caverna. La luce lo accecherà di nuovo e prima dovrà guardare gli oggetti solo riflessi nell’acqua, ma infine potrà alzare lo sguardo, potrà ammirare il mondo esterno e volgere gli occhi verso il sole.
E qui c’è il gran finale. Ma se quest’uomo fosse costretto a tornare nella caverna? Egli cercherebbe di raccontare agli altri uomini ciò che ha visto, dovrebbe «pronunciare giudizi» a quelli che «prigionieri furono sempre». Dovrebbe riabituarsi al buio, e potrebbe volerci del tempo. «I prigionieri esprimerebbero il loro giudizio e direbbero che quell’uomo è andato in alto, ma torna con le pupille annientate». E mentre lui cercherebbe con ogni mezzo di sciogliere le catene per andare in alto, loro direbbero che «non vale nemmeno la pena di andare in alto».

Il mito della caverna è talmente potente e complesso, può essere guardato e analizzato da talmente tanti punti di vista, che lungi da me volerlo spiegare. Ve l’ho riassunto in modo che ciascuno rileggendoselo possa coglierne un aspetto, possa essere conquistato da un passaggio, possa farlo proprio nel modo che preferisce.  Ora senza alcuna pretesa interpretativa dirò quello che il mito della caverna ha regalato a me.

Il racconto platonico racconta di un’ascesa, dall’ignoranza alla sapienza; un’ascesa meravigliosa che desta stupore e incanto (è bello vedere il sole dopo che sei stato incatenato nel buio, come è bello capire qualcosa che prima ignoravi); un’ascesa coraggiosa e dolorosa (gli occhi fanno male, devono abituarsi alla luce… allo stesso modo capire non è facile, ci vuole sforzo e talvolta anche una certa dose di peli sullo stomaco); un’ascesa difficile da comunicare e da comprendere (gli altri sono finanche infastiditi dalle parole del prigioniero che torna, si sentono addirittura minacciati, perché in fondo una scoperta, una comprensione più profonda delle cose potrebbe essere destabilizzante, e allora tanto vale starsene pigramente in panciolle senza interrogarsi, senza provare a capire).
Bene. Io credo che il mito della caverna non voglia dirci che la caverna è meno “reale” del mondo esterno, e che siamo dei somaroni rincoglioniti a pensarlo. No, per niente. La caverna è reale allo stesso modo del mondo esterno. I prigionieri sono reali, la grotta è reale, le ombre sono reali. Il buio è reale nello stesso modo in cui la luce è reale. Nel senso che esistono, sono lì. Il punto è l’attribuzione di senso. Il problema non è capire la differenza fra ciò che non è reale da ciò che lo è, ma cercare l’autenticità. Cercare il significato profondo delle cose, delle persone, della vita. Siamo uomini e perciò pensiamo e amiamo, e questo, non c’è niente da fare, ci rende complessi. Io non devo rassegnarmi a credere di essere un’ombra proiettata su un muro né che gli altri lo siano: nessuno lo è, ed è emozionante e doloroso sapere che c’è molto di più. Banalmente parlando, non è all’apparenza che possiamo fermarci, ma è nostro dovere provare a restituire autenticità a noi stessi e a ciò che ci circonda.

Ma questo percorso di conoscenza non può avvenire in solitudine. Per questo l’omino che esce dalla caverna e poi torna non viene capito. Non si può fare un percorso da soli e poi andare a raccontare agli altri di quanto è fico e di quanto "sono fico io che l’ho fatto". Platone questo lo sapeva bene.
Il mito della caverna esprime una delle paure più grandi e più comuni, quella di non essere capiti. Ma la risposta a questa peraltro umanissima paura è da Platone data attraverso tutta la sua filosofia. L’ho già detto: non è un caso che Platone scelga il dialogo come modo per fare filosofia. Perché è solo attraverso il dialogo, lo scambio, il confronto tra esperienze, attraverso l’ascolto e lo sforzo collettivo, che si può aspirare alla comprensione di sé, degli altri e delle cose e infine all’autenticità.

sabato 14 luglio 2012

L'Aquila


Sono tornata dalla nostra mini vacanza e ci ha accolto una sempre caldissima Firenze. Come promesso, ho caricato le foto della passeggiata nel Parco Sirente. Ma oggi vorrei fare un post un po' diverso dagli altri. Prima di partire, siamo stati anche all'Aquila, dove peraltro vi è una delle Università in cui F. insegna. L'Università è provvisoriamente a Bazzano, nella zona industriale, in mezzo a una serie di capannoni (più o meno introvabile). Pare che sarà comunque spostata il prossimo anno in una nuova sede.

Volevo però documentare e farvi vedere com’è attualmente la situazione nel centro storico. Non sono una brava fotografa ma ho fatto del mio meglio. Vi ricordo che il terremoto è avvenuto il 6 aprile del 2009. Io sono stata all'Aquila nel 2006, quando F. ha cominciato a insegnare lì e vi assicuro che era bellissima. Quasi nessun abitante del centro storico è ancora tornato a casa, molti abitano nella new town e negli alberghi.

E questo è il centro storico:


Due stradine laterali: è tutto puntellato
 e ci sono delle zone alle quali non si riesce ad accedere


Questa è la piazza principale. Nella basilica ci sono stati degli interventi, come potete vedere. La Piazza sta tornando alla vita. Il famoso e storico negozio delle sorelle Nunzia che produce buonissimo torrone ha riaperto in fretta ed è un bellissimo locale. 
Ha riaperto anche un bar gelateria molto buono dove ero stata nel 2006: ma questa è una cosa recente, mi ha detto F. che quando è venuto a fare lezione in primavera era chiuso. 



Quasi tutti i negozi e quasi tutte le attività sono chiuse. Posso però dirvi che a volte, in mezzo a una via in cui non c'è niente, ha riaperto un bar, una pizzeria, una cartoleria, o altro. Ma ancora molto molto poco.



L'Aquila era una città universitaria. Il giovedì era la giornata in cui tutti gli studenti si riversavano per le vie e popolavano i numerosi bar e caffè che c'erano. Questi locali non ci sono più. 
Anche in questo caso si torna faticosamente alla vita e alla "normalità": questo cartello che ho fotografato come potete vedere pubblicizza l'apertura di un nuovo locale. 





martedì 10 luglio 2012

Diario di una settimana di vacanza


Sono in vacanza con F. per una settimana, tre giorni al mare nelle Marche e tre in montagna in Abruzzo. Se vi spiego come mai questa vacanza vi fate una risata e non vedo perché risparmiarvela, perciò ecco qua… mio marito insegna in alcune università sparse per l’Italia (io ho iniziato a raccontarvi le mie avventure lavorative, che non sono niente male, ma le sue sarebbero ancora meglio, solo che mi ha chiesto di non raccontarle a giro per il web). Ora è in fase di esame, così l’ho accompagnato e, per non pensare al fatto che uno va a fare esami senza neanche prenderci lo stipendio (solo le ore di lezione sono pagate, tutto il resto del lavoro si fa gratis) – con ovviamente (manco a dirlo) spostamenti a suo completo (e poco economico) carico –, ci siamo convinti che queste sono vacanze e uno, tanto che c’è, tanto che passa da quelle parti, va là, ci butta lì due esami. È una questione di psicologia, la mente si inventerebbe qualunque cosa per stare meglio, e la nostra da questo punto di vista è molto ingegnosa.

Dopo questo preambolo un tantino polemico, veniamo dunque alla settimana di vacanza. Fortuna vuole che mio papà sia marchigiano e che abbiamo una casa di famiglia al mare nelle Marche. È il luogo dove vado da quando sono nata, è legato alla mia esistenza allo stesso modo di Firenze. Se arrivo con il treno comincio ad emozionarmi quando la ferrovia costeggia il mare, rendendolo molto vicino e facendomi provare una calda sensazione di benessere, se arrivo con la macchina comincio ad emozionarmi quando il paesaggio cambia: le colline marchigiane hanno un profilo dolce e rassicurante, e degradano lentamente verso il mare. Dopo l’emozione di arrivo, appena entro in casa o raggiungo la spiaggia, ecco che i miei sentimenti cambiano: provo una strana sensazione di commozione mista ad inquietudine almeno per le successive 24 ore: sapete quando un luogo è così legato alla vostra esistenza che è come se vi avesse rubato una parte della vostra identità? Io sento questo, e tutte le volte che torno è una lotta fra la mia identità attuale e quella che è rimasta lì. Eraclito diceva che «non ci si bagna mai nello stesso fiume». Ecco, è così: non mi bagno mai nello stesso mare, perché, pur se sempre io, sono diversa, e sento che ogni anno è diverso dall’altro.  E questo è sempre, tutte le volte, per me, completamente scioccante (da ragazzina non ero così, è il tempo che mi ha reso vulnerabile. Ma, non so, sono contenta di essere vulnerabile, le cose assumono sempre un grandissimo valore in questo modo). Comunque, tranquilli: dopo una piadina, qualche bagno, qualche passeggiata in acqua e molte chiacchiere con la mia amica E., lo shock mi passa e torno più o meno normale. Tanto normale da potervi citare le due cose più belle di questi tre giorni marini: una cenetta molto carina e romantica con F. in giardino e un bagno in solitudine alle 7.30 di sera. Non sarà lo stesso mare, ma sempre mare è.

E ora siamo in Abruzzo, di ritorno da una super camminata in montagna. Camminata avvenuta di preciso nell’Altipiano delle Rocche, a sud dell’Aquila, alle falde del monte Sirente (non è molto conosciuto, ma per ricordarselo basta pensare a Silente di Harry Potter!) . E oggi sono felicissima. Dunque, devo precisare che i miei rapporti con la montagna sono inesistenti. Prima di questa volta sono stata in montagna a sciare in terza media all’Abetone (soprassediamo, la neve mi aveva elettrizzato tutti i capelli che portavo indietro con una fascetta, e, avendo io i capelli ricci, non vi dico che bellezza), e ho fatto una volta una camminata in montagna con la mia cognata d’inverno tra la neve (vi dico solo che avevo gli stivali con il tacco – ebbene sì  – e rischiavo di scivolare a ogni passo. A un certo punto ci siamo imbattute in un gruppo di gente che scendeva dalla funivia con le tute da sci e con il mio abbigliamento mi sono sentita completamente disadattata). Perciò temevo moltissimo questa gita e sono stata tutto ieri a chiedere a F. le cose più strane, che ora vi risparmierei. Inoltre chi mi conosce sa che sono abbastanza sportiva ma totalmente impedita, e quindi non era del tutto escluso che potessi precipitare in un burrone (e questo, secondo me, lo temeva anche F.). Bene, la passeggiata è stata al di sopra delle mie più rosee prospettive. Ne abbiamo fatte due. La prima partendo da Rocca di Cambio (con i suoi 1400 metri è il comune più alto dell’Appennino): abbiamo attraversato una pineta (piena di mosche!) e una chiesetta fino a raggiungere una croce di legno che sovrastava il paesino (molto carino, anche se – ahimè – con tangibili segni del terremoto) e il sottostante verdissimo altipiano. Poi il cammino diventava troppo impervio e abbiamo desistito. La seconda di un paio d’ore ma semplice e direi assolutamente meritevole. La consiglio a tutti. Abbiamo raggiunto la frazione di Rovere, un po’ più bassa di Rocca di Cambio, e da lì, partendo da un fontanile dove ho fatto due chiacchiere con una bimba di Roma che andava a cavallo, siamo saliti,  attraverso piste, tratti di mulattiera e un ombreggiato bosco, sino a Fonte Anatella. Fonte Anatella è un largo e assolato spiazzo (appena posso carico un paio di foto paesaggistiche) con una casetta e dei tavolini in legno dove abbiamo pranzato e preso il sole, ovviamente una fonte o forse meglio dire un abbeveratoio con acqua freschissima (mi si sono ghiacciati i piedi a tenerli dentro), e una mandria di mucche poco lontane. Ho scritto una specie di temino da bambina di 10 anni, ma forse così è l’unico modo per restituirvi il mio entusiasmo. E concluderei il temino proprio come una bambina da 10 anni: è stato bellissimo, davvero. Rigenerante.

Un unico enigma. Dei tipi sono arrivati con una jeep da un’altra strada, portando con loro dei cartoni di pizza e per giunta dei supplì fritti, e mi sono interrogata se, per caso, girato l’angolo, ad interrompere quel paesaggio da Heidi, non ci fosse – che so – un centro commerciale. Ma direi che rimango nell’enigma.

 
Questa è una parte di sterpaglie e di bosco che abbiamo attraversato partendo da Rovere

Questo è lo spiazzo che si è aperto alla fine del bosco 
(dal quel sentiero bianco è venuta la misteriosa jeep con i misteriosi cartoni di pizza...)

Fonte Anatella (l'abbeveratoio è dietro la casina storta)

Io che faccio la stupidina nel bosco


domenica 1 luglio 2012

Cinquanta sfumature


Non ho resistito e ho comprato anche io il libro boom di successo in Inghilterra e in America, Cinquanta sfumature di grigio di E.L. James, primo capitolo della trilogia Cinquanta sfumature. Non sapete di che si tratta? Narra la storia d’amore-sesso sadomaso fra Anastasia, ventunenne appena laureata in procinto di lavorare come stagista in una casa editrice, e Christian Grey, giovane imprenditore miliardario, presuntuoso, bellissimo, con un oscuro passato (che rimarrà oscuro fino all’ultimo libro, presumo) e con inquietanti perversioni sessuali. Diciamo che vive il sesso a modo suo (come rapporto di dominazione-obbedienza) e per esercitare il suo potere ha bisogno di sottomettere e anche far del male alla sua partner.

Dunque, io ero incuriosita per il successo che il libro ha ottenuto e volevo vedere come la signora James parlava di questo tema scabroso. Poi non ne avrei scritto in un post, ma sono stata provocata da F. «Vediamo se hai il coraggio di affrontare un argomento così piccante!». Se ho il coraggio? Io?!? Ma guarda un po’. Certo che ho il coraggio; e devo anche ammettere che su questo libro ho molto da dire.

1) Il successo di E.L. James sta in parte nel fatto che la storia è raccontata dal punto di vista di Anastasia (in prima persona, intendo). La giovane, che è carina, intelligente, autoironica, brillante, romantica e pazzamente innamorata provoca una subitanea simpatia. Il libro è in fondo tutto uguale: vede Christian e le svolazzano farfalle in pancia, Christian si leva la maglia e lei rischia lo svenimento, fanno l’amore e qui è un’esplosione di emozioni e desideri raccontati senza tabù; e poi è genuinamente felice, e poi si prende in giro, e poi piange come una pazza. È come leggere il suo diario e il gioco dell’immedesimazione funziona piuttosto bene.

2) Christian Grey è al contrario tremendo. Su questa figura del dominatore si poteva lavorare un po’ meglio. Ha subito un trauma e ora è un sadico. Psicologicamente parlando, è una visione un po’ banalotta. Poteva essere un po’ più contraddittorio, un po’ più tormentato, un po’ più complesso. Ecco, direi che una storia come questa doveva basarsi sulla costruzione dei personaggi e scavare molto più a fondo sulla loro personalità. Un’occasione sprecata, perché al contrario è un libro molto leggero.
Inoltre, certi passaggi sono proprio da risata. Ma che vi pare un sadico affascinante, straziato e pieno di problemi uno che se ne esce con: «Non faccio l’amore ma fotto senza pietà», oppure: «Il nostro scopo è il piacere»? Ma via. A me pare un truzzarello che si vanta con gli amici nello spogliatoio prima della partita di calcetto.

3) E.L. James sceglie – e qui onore all’ironia – come partenza della storia una situazione paradossale. Lei è vergine e si trova davanti uno (tanto per iniziare bene) che ha adibito una stanza della casa a una cameretta degli orrori. Lui dal canto suo è una specie di principe azzurro bellissimo e pieno di soldi che la porta in giro su aerei privati ma che poi ha questa ingombrante perversione. È voluto, la signora autrice è una furba. Nondimeno, l’intreccio fa acqua da tutte le parti, lo stile è terra terra, e delle volte sembra proprio di leggere una storiella di «Cioè» in versione hot.

4) Il successo del libro è rappresentato dall’erotismo che emana da ogni pagina. Ben riuscito. Anche perché non è fine a se stesso: anche nella descrizione più sessuale, tutto è velato di un disperato romanticismo. Tra queste due persone ogni cosa è di natura sessuale. Eppure è in questa dimensione che loro si amano. E sappiamo tutti benissimo che l’intimità sessuale non apre tutte le porte della conoscenza né di sé né dell’altro, ma è vero che ne apre molte, e questo libro non ha paura di dircelo.
Mentre leggevo Cinquanta sfumature di grigio, mi è venuta in mente una frase bellissima di Calvino che si trova nel Barone rampante. Quando Cosimo e Viola fanno l’amore per la prima volta, Calvino lo racconta così: «Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa perché, pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così».
Ecco, per Anastasia e Christian è proprio in questo modo.

5) Questo libro non aspira certo a essere profondo, ma un problema non da poco lo pone lo stesso. Qual è il limite? Ossia, quando si è innamorati si sopporta tutto e si farebbe tutto quello che l’altro desidera. Non se ne può fare a meno, è una forza misteriosa a cui non c’è modo di sottrarsi. È bello e pericoloso amare così. Ed è vigorosamente triste quando l’amore per l’altro e l’amore per se stessi stridono l’uno contro l’altro.
Ma tutti abbiamo un limite. Ce l’ha Anastasia che alla fine del I atto della trilogia se ne va, perché le sembra di averlo toccato. E ce lo abbiamo tutti noi, solo che non sappiamo quale sia finché non lo abbiamo raggiunto.

Notti Europee


Pubblicare questo post adesso dopo la débâcle contro la Spagna è un po’ buffo, ma ormai lo avevo già scritto. Quest’anno va così: è destino che le mie squadre arrivino in finale e perdano. Come dire, ci sei, sei vicinissima alla vittoria, ma ancora te la neghiamo. 
Comunque rimane vero il mio omaggio verso la Nazionale, ed eccolo qui…

Questa settimana è stata – come dire – molto spiacevole per me (e ringrazio tutte le persone che si sono prodigate per renderla un po’ meno tale). Ma c’è una cosa che l’ha illuminata, qualcosa che mi ha un po’ commossa e mi ha fatto provare un senso di rivincita e di riscatto; ed è stata la Nazionale agli Europei.
Scrivo questo post al bordo della piscina: con F. sono in campagna vicino a Reggello per sfuggire almeno un po’ al caldo fiorentino. È sabato e domani sera si giocherà la finale. Io non so se riuscirò a pubblicare il post prima della partita o solo a risultato conseguito, in ogni caso riscatto e commozione l’Italia ce l’ha già fatti provare e ora vi spiego in che misura l’ha fatto provare a me.

Riscatto. L’immagine iniziale di questi europei è per me Crozza che due martedì fa a Ballarò dichiara: «Godetevelo, questo Europeo, perché fra quattro anni ci saranno soltanto Francia e Germania in Europa. E passeranno tutto luglio a giocare l’una contro l’altra». E in effetti la congiuntura economica fa proprio pensare che è il momento di prepararsi a giocare la Coppa d’Africa!
E così quando, dopo l’epico cucchiaio di Pirlo ai rigori contro l’Inghilterra, approdiamo alla semifinale contro la Germania, noi italiani sappiamo che tutta l’Europa tiferà per noi. Di certo sappiamo che lo farà la Grecia che vuole sentirsi vendicata per la partita e non solo. Lo sa anche Mario Monti che, improvvisamente preso da impavido coraggio e da quella che sembra un’anarchica e birichina disobbedienza (ma che in realtà è frutto di un calcolo politico: vedi http://www.pietroichino.it/?p=22142), sfida la Merkel e, nella stessa notte della semifinale, sembra riuscire a smuoverla dalla sua severa e deleteria posizione. Quella stessa notte l’Italia vince a calcio con la Germania e la finale sarà con la Spagna, davvero a colpi di spread.
Nessuna cosa è mai solo quello che è. Tutto si carica sempre del senso che noi decidiamo di attribuirgli. Un luogo è solo un luogo, ma se in quel luogo è accaduto qualcosa di importante per noi, ecco che assumerà un significato profondo e ormai inscindibile dal luogo stesso. Così anche con il calcio. In fondo si tratta di undici ganzetti strapagati che corrono dietro a una palla, siamo noi a dare senso a ciò che vediamo. Questi sono solo europei, una competizione sportiva fra un monte di ganzetti strapagati, eppure ormai ha assunto per noi tutt’altro significato. La vittoria con la Germania, è inutile negarlo, ci ha regalato una gratificante, impagabile, sottilmente sadica, soddisfazione.

Commozione. È incredibilmente bello che l’immagine di questi europei rimanga Mario Balotelli. Il ragazzo adottato che parla il dialetto bresciano. Che a fine partita corre ad abbracciare la madre sugli spalti, felice perché, pur essendo anziana, è riuscita a venire a Varsavia. Il suo più grande desiderio è che il padre sia a Kiev alla finale: anche lui è anziano e forse sarà difficile, ma ha lasciato alla moglie una barretta di cioccolato bianco da dare a Mario. È il suo cioccolato preferito, è quello che mangiava per ricaricarsi quand’era bambino, perché a lui quello nero non piaceva (si potrebbe aprire uno squarcio sull’inconscio, ma lo lascerei a chi è più competente di me).
E a me che sono una gallinona romantica la storia di Mario fa proprio scendere una lacrimetta di commozione. Mi piace vedere che l’amore non passa solo dal legame di sangue. Passa da una madre che si è fatta per 18 anni la fila per rinnovare il permesso di soggiorno a Mario, che, pur essendo nato in Italia, non l’ha mai avuto prima della maggiore età. Mi piace che sia stato lui a fare goal alla Germania e a portarci a Kiev. (le mie fonti per queste notizie sono un editoriale di Gad Lerner sulla «Repubblica» e la «Gazzetta dello Sport» di sabato). E ora, in finale, Mario non far cazzate, che ogni tanto le combini. Grazie per esserti levato la maglietta e averci fatto vedere quel po’ po’ di fisico. Io ho apprezzato. Ma non lo fare più. 
Siamo pronti per la finale e che vinca il migliore. 

Bé, direi che la Spagna è stata migliore. Ma riscatto e commozione per me valgono lo stesso, ed è questo che nei prossimi anni ricorderemo.