venerdì 27 aprile 2012

Cose che mi fanno indignare, cose che mi fanno stare bene



Da qualche anno a questa parte il mondo esterno mi colpisce con molta più intensità di prima. Un sentimento che, negli anni della scuola e dell’Università, non mi aveva mai sfiorato è l’indignazione. Ultimamente invece sono spesso indignata: sono indignata perché mio marito, che è bravissimo (e non lo dico perché è mio marito e perché l’amore mi ha rincoglionito e per tutte queste storie, no, credetemi, sono molto obiettiva in questo genere di giudizi), non riesce a entrare a tempo pieno all’Università. Sono indignata perché la mia amica M., che sarebbe un’ottima giornalista, ha deciso, dopo anni di lavoro precario presso un giornale, di lasciar perdere perché sa che non ne può venire niente. Sono indignata per la mia amica C., che sarebbe molto brava a organizzare eventi e che l’ha fatto per anni, fino al pensionamento del suo responsabile, ma, essendo a progetto, con lui ha finito anche lei e ora si barcamena tra un lavoretto e l’altro. Sono indignata per la mia amica D., che è una storica con dottorato di ricerca e due pubblicazioni, e lavora come guida in un posto in cui non si sente soddisfatta. Sono indignata per la mia amica R. che è una bravissima editor, formata, preparata e molto precisa, ma che si è tra le altre cose dovuta improvvisare esperta di bricolage e di ricette per scrivere due libretti e prendere due soldi. E potrei continuare. Continuare e continuare. Chiaro che l’indignazione cresce vedendo poi delle palesi ingiustizie nel mondo del lavoro, della politica e della ricerca su cui taccio altrimenti per l’incazzatura mi si sballano i valori del sangue.

 Nessuno di noi (fra me e miei amici) è sfigato, perché ci siamo tutti laureati prima dei 28 anni (anzi, qualcuno di noi c’aveva pure il dottorato a quell’età). Nessuno di noi è noioso, perché se c’è una cosa che è vera è che abbiamo fatto ogni sorta di lavoro (intellettuali, manuali, culturali, sociali, oplà, quello che volete, basta chiedere!). Però un po’ di sfiga ce la sentiamo addosso lo stesso. E, in quanto alla noia, bé, diciamo così, siamo talmente abituati alla mancanza di noia che ormai conviviamo con una certa facilità con tutto quello che la mancanza di noia porta con sé (fasi di depressione, crisi d’ansia, insicurezze esistenziali, eccetera).  Nonostante tutta questa indignazione, nonostante tutto questo patimento, nonostante tutta questa indefinibile incertezza, non è che noi siamo lì a lamentarci e a lasciarci andare. Semplicemente, continuiamo a fare quello che siamo capaci di fare: impegnarci. E qualche soddisfazione, impegnandoti, ce l’hai sempre (non economica, per carità, economica non sia mai, soddisfazione spirituale, intendo). Sbattiamo contro muri. Ci rialziamo. Riproviamo. Convinti che il merito un giorno sarà premiato, perché è questo che ci hanno sempre insegnato. E non ci manca l’ironia, perché sappiamo anche ridere, prendere queste situazioni con leggerezza, raccontarcele con una certa dovizia di comici particolari. E sappiamo anche essere felici, a volte, a intermittenti momenti, perché, in fondo in fondo, ci basta poco: una gratificazione, un complimento, o anche solo una parola comprensiva di un amico, o un amore, o una lieta sorpresa.

Per quanto riguarda le mie vicende lavorative, non provo propriamente indignazione. Magari ve le racconterò nei prossimi post per farvi un po’ divertire. In ogni caso, penso sempre che ho cercato di fare quello che so fare e quello che mi piace fare, e, tutto sommato, lottando, incassando, non demordendo, ce l’ho sempre fatta. È questo che comunque mi fa vedere le cose in modo positivo. Con speranza, va là! 

Il colpirmi del mondo esterno affonda le radici in qualcosa di più profondo e più ampio che non so spiegare. Ci sono cose capaci di inabissarmi come un tornado: soffro se vedo una persona anziana sola su una panchina, non riesco a sostenere la visione di Report e soprattutto di Presa Diretta per più di trenta minuti (non necessariamente consecutivi), temo le malattie, potrei commuovermi per un libro o un film (non dev'essere neppure bellissimo, basta che tocchi le corde giuste), mi segna un abbandono, una lontananza, ma anche solo una mancanza di attenzioni. 
D’altra parte, la forza, che ha l’universo esterno nel buttarmi a terra, è la stessa che ha nel tirarmi su. E così ci sono tante cose che mi fanno, serenamente, dolcemente e profondamente stare bene: mio marito che si inventa un balletto per farmi divertire, un tè o un pranzo con un amico importante,  delle  attenzioni o una sorpresa che non aspettavo, una telefonata o una bella serata di confidenze con alcune amiche. Sto bene quando ho vissuto qualcosa di bello con qualcuno, quando incontro una persona gentile, quando vedo un bambino che mi sorride, quando sono utile per gli altri, quando qualcuno ha bisogno di me  e me lo chiede, e, anche, perché no, quando ad esempio a Milano vince Pisapia e questo fa improvvisamente soffiare un vento nuovo, fatto di speranza e di rinnovamento. Anche se chissà se poi questo è così (sono dovuta tornare indietro quasi di un anno per trovare un evento politico vagamente piacevole!). 

E, come potete vedere, sono molte più le cose che mi fanno stare bene di quelle che mi fanno stare male. Dedico questo post a tutte le persone che mi fanno stare bene e sono molte. Grazie. 


mercoledì 25 aprile 2012

Il meglio di noi


Elemento centrale della filosofia di Platone è la teoria delle idee. La teoria delle idee più o meno tutti la conosciamo: cosa fa sì che una cosa sia quello che è? Cosa fa sì che Bucefalo sia un cavallo, che Spirit sia un cavallo, che West sia un cavallo e che Ronzinante sia un cavallo? Cosa fa sì che cavalli così diversi siano tutti cavalli? Il fatto che hanno, per così dire, la stessa essenza; il fatto che, nonostante le differenze, sono ciò che sono perché appartengono alla stessa idea, l’idea di cavallo. Grazie alle idee noi possiamo ragionare: in che altro modo, infatti, riusciremmo a mettere insieme eventi, concetti e oggetti apparentemente diversi ma accumunabili gli uni agli altri?
La teoria delle idee ha dunque una funzione logica e teoretica molto importante. È alla base del ragionamento e della comprensione del mondo esterno. Ma Platone non era interessato tanto a questo aspetto, o perlomeno, non soltanto. L’idea di cavallo, in altri termini, non credo lo abbia mai tormentato particolarmente. Sono altre le idee che popolavano la sua mente e a cui voleva dare ragione di esistere: l’idea del bene, l’idea della bellezza, l’idea della giustizia, ad esempio. È di quest’ultima idea platonica che vorrei oggi parlare.

Cosa rende un’azione giusta o meno? Cosa rende una persona giusta o meno? Il fatto di aderire a quella idea che rende giusta un’azione o una persona: in altri termini, è la giustizia che rende giusta una determinata azione e una specifica persona. Questa idea di giustizia io so (perché lo sento) che esiste all’interno di noi uomini: è quella ribellione dell’anima che ti fa scandalizzare di fronte al comportamento di un altro del tutto sbagliato, è quella improvvisa illuminazione decisionale che ti fa battere la mano sul tavolo e dire improvvisamente a te stesso: «No, questa cosa non la faccio, anche se mi converrebbe, perché so che non è giusta» (bé, sì, emozione indiscutibilmente più rara della prima, ma talvolta si verifica), è quella tormentata sensazione di rimorso che proviamo nel momento in cui siamo stati noi a comportarci male, e il nostro comportamento ha nuociuto qualcuno.
Ora, vedendo chi ci ha governato negli ultimi venti anni, verrebbe da dire che forse non è che proprio tutti tutti ce l’abbiamo questa idea di giustizia. E bisognerebbe porre la seguente domanda a Platone: sei sicuro che l’idea di giustizia sia innata nell’animo umano? Delle due l’una: o è innata ma qualcuno ha deciso di prenderla a martellate perché era un po’ fastidiosetta e si viveva meglio senza, oppure non lo è, la acquisiamo con l’esperienza, principalmente nei primi anni di vita, e forse qualcuno non l’ha appresa bene o magari non l’ha appresa per niente.
Eppure io sento, come Platone lo sentiva, che la giustizia in sé esiste. Certo, forse è rara (direi quasi introvabile) una persona giusta, ma esistono le azioni giuste, e a tutti noi è dato compierle nella nostra vita, foss’anche una volta sola.

Per Platone l’idea di giustizia era un modello. Una guida. Un’aspirazione. Platone lo sapeva che gli uomini non sono perfetti. Nessuno sarà mai completamente giusto. Ma esiste in noi una trazione verso la giustizia, un bisogno di miglioramento,  un incessante desiderio di andare al di là di quello che siamo. Platone ha scritto la Repubblica, testo nel quale ha descritto quello che secondo lui è lo stato perfetto, lo stato giusto. Ma ha voluto chiarire, in questo denso, complesso e potente dialogo: è «uno stato che esiste solo a parole, perché non credo che esista in alcun luogo della terra. Ma forse nel cielo esiste un modello, per chi voglia vederlo e con questa visione fondare la propria personalità». E così conclude: «Del resto non ha nessuna importanza, perché l’uomo vive in questo mondo, in questo stato, e in nessun altro».

Ecco qua. Non dobbiamo mai dimenticare che siamo imperfetti, egoisti, incompleti. Siamo così ed è per questo che non potremo mai essere delle persone totalmente giuste. Ma, nonostante questo, noi uomini abbiamo la fortuna di poter "vedere, sentire e percepire" la giustizia, ed è per questa ragione che possiamo aspirare a compiere, a volte, a tratti, a intermittenza, azioni giuste. Per Platone è questa tensione – fra ciò che inevitabilmente e necessariamente siamo e ciò che vorremmo essere – a renderci tali, ed è in questa tensione che talvolta possiamo riuscire a dare il meglio di noi.

venerdì 20 aprile 2012

Baccelli, pecorino e un risotto all'arancia speciale


Alcune persone, leggendo il blog, mi hanno chiesto: «Ma non ci scrivi qualche ricetta? In genere in tutti i blog femminili un po’ di spazio è dedicato alla cucina». E io ho deciso che, essendo una Femmina (notare la maiuscola) e sentendomi proprio una Femmina doc (nel senso che credo – e temo – di rappresentare il perfetto cliché femminile, ma questo argomento meriterebbe un approfondimento tutto suo, per cui lo affronterò in un altro futuro post), accontenterò chi me lo ha chiesto e racconterò cosa ho cucinato l’altro giorno a pranzo.
Mio marito non ama i baccelli. Sì, lo so che per un fiorentino è quasi un oltraggio e che baccelli e pecorino è un’accoppiata direi quasi commuovente, ma che volete, è del nord (loro i baccelli manco li chiamano così, li chiamano fave e li fanno cotti!), fa del suo meglio per integrarsi, ma rimane un uomo del nord, e d’altra parte un po’ di sano nord in casa fa anche bene.
Comunque, ho deciso di preparargli gli spaghetti con baccelli, pomodorini e pecorino. Ricetta molto semplice: ho fatto un soffritto di cipolle (niente peperoncino perché soffro di cistite percui è meglio se lo evito, ma a voi lo consiglio), a cui ho aggiunto i baccelli sgusciati che ho cotto con un po’ d’acqua per più di 10 minuti a fuoco basso (in genere se ho tempo cucino sempre a fuoco basso, la nonna faceva così; ma questo per dirvi che se avete poco tempo a fuoco alto secondo me bastano 5-6 minuti). Poi ho aggiunto i pomodorini che ho fatto andare per altri 5 minuti circa. Infine, ho saltato nel sughetto la pasta, nel frattempo cotta in abbondante acqua salata e scolata, e il pecorino tagliato a quadratini. Così l’uomo del nord i baccelli se li è mangiati.

Prima di andare a convivere cucinare non mi era mai piaciuto. E in tutta onestà non lo sapevo neanche fare. Non so perché, dal momento che mia nonna era una bravissima cuoca e pure mia mamma lo è. Mia nonna da buona pugliese trapiantata a Firenze ha sempre preparato piatti della sua terra: orecchiette, involtini di melanzana e carciofi arrostiti ripieni sono stati i suoi cavalli di battaglia; per quanto riguarda mia mamma, ha saputo unire alle sue origini pugliesi alcuni tratti della cucina fiorentina e potrebbe con facilità spaziare da un sugo con le cime di rapa a uno di cinghiale, da una gustosa parmigiana al coniglio ripieno.
Diciamo che io ho deliberatamente lasciato la cucina alle altre due donne di casa. Forse temevo di non essere all’altezza. Forse, dato che non sopporto di fare male le cose, non avevo voglia di scoprire che non ero in grado. Forse, dato che odio chiedere: «Potresti insegnarmi come si fa questo?», aspettavo di impararlo da sola, testona come sono. O forse ero solo pigra. Chissà. Se ora a me piace molto cucinare lo devo a mio marito. E sono felice che lui mi abbia fatto scoprire questo lato di me, che per altro mi rende vicina a mia nonna e a mia mamma.
Ricordo che la prima volta che andai a casa di F. in tempi non sospetti mi conquistò con alcune sue fotografie di New York che aveva attaccate alla parete. C’era un’attenzione ai dettagli e agli sguardi sottile e precisa, sensibile e studiata, “angolata” e luminosa. Ma la seconda volta che andai da lui (e questa volta in tempi più che sospetti) mi conquistò con uno squisito risotto all’arancia. F. è molto bravo a cucinare, ma non è questo il punto. Il punto è che lui per la prima volta mi ha mostrato con un gesto semplice ma inequivocabile che la cucina può essere un atto d’amore. Certo, è un’ovvietà che ho sempre saputo, ma a cui non avevo mai realmente pensato.

E perciò ecco perché adesso adoro cucinare. Mi piace pensare sia un modo per occuparsi degli altri. Può essere una persona a cui voglio bene che viene a pranzo o a cena, o un gruppo di amici, o  mio marito che mi chiede: «Cosa si mangia oggi?», ma, in tutti i casi, in quello che farai, in quello che preparerai, non c’è solo l’oggetto cibo in sé, ma c’è il tempo che hai investito, l’attenzione che ci hai messo, il sentimento che hai maturato; c’è la scelta (preparo questo o quest’altro? Cosa è meglio per lui/lei?), c’è il pensiero, c’è l’affetto. Se si vuole, la cucina è a suo modo un linguaggio, che sa chiedere e dare, che sa dimostrare e dichiarare, che sa condividere e regalare.

Mio marito sta preparando adesso i bocconcini di pollo con i broccoli. Vado in cucina a condividere. Oppure aspetto, e questa cena me la faccio regalare.

martedì 17 aprile 2012

Amore platonico



Il Simposio è sicuramente il più bello e il più conosciuto dei dialoghi di Platone, perché parla dell’amore.
Amore è per Platone desiderio inesausto di bellezza: dapprima si realizza nel desiderio di possedere i corpi belli (e come ti si può dar torto, Platone spallone?), poi subentra l’amore nella sua dimensione spirituale, ovvero amore delle anime belle, come anche amore per un pensiero o un ragionamento bello, e infine per i più fortunati, per i più speciali (insomma non è per tutti) è dato conoscere l’amore per la bellezza in sé, quella bellezza che non nasce e non muore, che non si accresce né diminuisce, e che rende belle tutte le altre cose: i corpi, le anime, i pensieri e i ragionamenti. I corpi, le anime, i pensieri e i ragionamenti, in altre parole, sono belli – possono essere belli – perché partecipano della bellezza in sé.
Da questa teoria deriva la definizione di amore platonico: per Platone l’amore verso i corpi non è che un passaggio, ciò che conta è altro, è il raggiungimento di questa bellezza ideale ed eterna.
L’amore platonico è un argomento che fa schiantare tutti dalle risate: che amore è, se è solo spirituale? Ok, spirituale un po’ va bene, ma non dimentichiamoci  la passione! Che noia, Platone! Dove sta quella che banalmente chiamiamo attrazione fisica, che è ciò che muove un corpo verso l’altro, che è ciò che permette l’unione intima tra due corpi? Dove sta quell’ inquietudine, quel desiderio di possesso, quel bisogno fisico dell’altro, che non esaurisce certo l’amore ma che tutti noi nell’amore conosciamo?
Bene, Platone non era un tipo noioso e questo amore lo conosceva benissimo. Tant’è che il Simposio non finisce affatto con il pacificato discorso sulla bellezza. Improvvisamente, proprio mentre tutti stanno in religioso silenzio ad ascoltare le parole piene di saggezza di Socrate, irrompe come un pazzo nella stanza Alcibiade. Alcibiade, personaggio politico molto noto nell’Atene del V secolo (ma ora non volevo uscirmene con una lezioncina), è completamente ubriaco e folle, davvero folle, di amore verso Socrate. Socrate, ci racconta Alcibiade, nella lunga e tormentata dichiarazione che chiude il Simposio, non è bello nel senso classico (anzi, pare proprio che Socrate fosse bruttarello) , eppure racchiude una sua bellezza unica ed eccezionale, che stordisce, inibisce, intimorisce.  «Quando sono con te» sembra dire Alcibiade «non riesco a parlare, non riesco a dire cose intelligenti, perdo tutte le mie sicurezze». L’amore ci rende vulnerabili. Ma per fortuna è così. Essere vulnerabili è una cosa meravigliosa.
Alcibiade ci dice molto chiaramente: «Oh, Socrate, che stronzate vai dicendo con quella storiella sulla bellezza… come può quella storiella spiegare tutte le storie d’amore? Ognuna ha la sua specificità, il mio amore non è amore per un corpo bello o per un’anima bella, e men che meno per la bellezza in sé, il mio amore è per quel determinato corpo e per quella determinata anima».
Non è certo casuale che il Simposio finisca con il discorso di Alcibiade. E così, in fondo in fondo, io credo che, come sempre, Platone sia più contraddittorio e tormentato di quanto volesse far credere.
Platone lo sapeva bene che amore è aspirazione alla completezza, desiderio spirituale di unione con un’altra anima. Ha ragione, d’altra parte. Amore è anche questo.
Ma poi ci ha pensato benino e, non convinto che questo potesse esaurire tutto, ha fatto arrivare Alcibiade, pazzo, ubriaco, ma inequivocabilmente  innamorato perso (impossibile non riconoscersi in Alcibiade, almeno in qualche momento della vita!!!), e il suo amore, tormentato, sofferto, inquieto, si esplica in modo chiarissimo anche nel desiderio di possedere fisicamente Socrate.
Platone sembra tutto sommato dirci: «Aspirate alla saggezza, alla bellezza, all'unione spirituale, ma sappiate che siete anche corpo, sappiate che siete anche fragili e imperfetti, e sappiate che è anche e soprattutto questo a rendervi uomini».

mercoledì 11 aprile 2012

Mia nonna


Mia nonna è morta ad agosto ed è per me molto difficile scrivere queste parole. Ma ha un effetto catartico. E simbolicamente vorrei iniziare da lei.
La mia nonna faceva la fifona e l’ansiosa, ma in verità è sempre stata forte. Quando è morto mio nonno (30 anni fa), ha deciso tutto: ha comprato il loculo per riposare accanto a lui, ha diviso le proprietà che aveva in Puglia e lei, che sembrava essere vissuta nella sua ombra (così dicono), è divenuta quello che è sempre stato per me, ovvero la mia nonna, molto affettuosa e sorridente, furbetta e bugiarda quanto basta, dotata di un pessimo tempismo ma con la battuta – impossibile dire se volutamente o meno – sempre pronta. Negli ultimi mesi era più triste, forse sentiva inconsciamente la morte avvicinarsi, mi ha confidato che le pesava non essere autosufficiente come voleva. «È brutto essere vecchi», mi diceva. (Ma a me viene un po’ da sorridere a pensarci: mia nonna è morta quasi a 95 anni, e si sentiva vecchia da soli sei mesi; avrei voluto risponderle: «Ohi, nonna, sei vecchia da almeno 15 anni!»).
Mia nonna era caparbia, testarda, non ascoltava mai nessuno e faceva sempre di testa sua. 7 anni fa si è operata al cuore. Io credo che pochi, al posto suo, avrebbero accettato di sottoporsi a un intervento invasivo come quello, avrebbero solo aspettato pazientemente e inesorabilmente l’arrivo della fine, ma mia nonna mai, lei era speciale, e per niente al mondo se ne sarebbe andata senza lottare.
Lei e mia mamma avevano un rapporto complicato, ma tra me e la nonna non è mai stato così. Alla fine, quando la vedevo stare male, mi sono sentita molto vicino a lei: mi veniva voglia di proteggerla, mi faceva tenerezza e pensavo che, come lei raccontava di essersi occupata sempre di me e mio fratello quando eravamo piccoli («Li ho cresciuti io», uno dei suoi cavalli di battaglia, capace di far incazzare mia mamma, che sembrava così quella degenere, che abbandona i figli alla nonna noncurante di loro), potevo ricambiare il favore e occuparmi, in parte, di lei. Forse non l’ho fatto a sufficienza. Ma il martedì prima che morisse siamo state insieme tutta la mattina: le ho fatto vedere le foto di Ostuni (ero appena tornata dalle vacanze), abbiamo chiamato mio marito che era a V. dai suoi, e poi abbiamo cucinato insieme (io ho preparato la pasta con le malanzane, che ho ereditato dalla sua cucina, e lei ha pulito i fagiolini). Quella mattina è stato il mio saluto a lei che, sebbene cominciasse a raccontare diverse stronzate e avesse perso un po’ la testa, la battuta pronta l’ha sempre avuta e di lottare non ha mai smesso. Pare sia morta così, lottando, o almeno, a me piace pensare che sia avvenuto così. Non sopportava di avere le sbarre al letto e alle 6, quando si svegliava, cercava sempre di scendere e di uscire. Credo l’abbia fatto anche quella mattina, e così se n’è andata come è sempre vissuta, testarda come un mulo, ostinata, con una straordinaria energia e voglia di vivere.

Si dice che mia nonna paterna – quella che non ho mai conosciuto e mi ha dato il nome – fosse buona, dolce e coraggiosa, coraggiosa nel dolore. È morta molto giovane, e so – perché così mi ha raccontato papà – che si è affidata a Dio con serenità e dignità, con una fede incrollabile nella Provvidenza. La mia nonna materna non era così, né mai avrebbe potuto esserlo. Col cxxxx che lei si affidava alla Provvidenza, a lei la morte non piaceva punto, lei voleva vivere. Io spero di aver preso da entrambe le nonne. Vorrei lottare nella vita. E essere serena e coraggiosa nella morte. Spero di essere entrambe le mie nonne, perché sono vissuta nel mito della nonna M. e sono  vissuta accanto a nonna R. , e così so che tutte e due mi hanno regalato in qualche modo qualcosa di loro.

E così, ecco qua, cara nonna, questo post è per te. Vieni a trovarmi nel sogno quando puoi.

Intro


Questo è il mio primo post. E perciò ho pensato di spiegare perché la scelta di questo nome ,"Io e Platone", che potrebbe apparire pure un po' pretenzioso. No, non ci sono similitudini fra me e Platone. Platone in realtà è molto legato alla mia vita, in modo simbolico, un po' come compagno e maestro spirituale: innanzi tutto ho studiato filosofia all'Università, poi mi sono dottorata in filosofia antica (scelte inattuali o quantomeno discutibili, ok) e di Platone ho lungamente parlato nella tesi; e poi a me Platone, nell'immagine che mi sono costruita di lui, è sempre rimasto simpatico. 
Innanzi tutto, dicono che il suo nome sia in realtà un soprannome: Platone verrebbe da platys che in greco vuol dire ampio, perciò qualcuno sostiene che sia stato chiamato così perché aveva le spallone. Era un palestrato, insomma. A me la cosa è da quando vado a scuola che mi fa schiantare dalle risate. È il perfetto kalòs kai agatòs. Cioè, Platone era un super mega cervello come mio marito ed era un super mega figo come… uh… vediamo un attimo… come mio marito senza la pancetta? Uhm, non è credibile… ok, come Viggo Mortensen allora.
Poi. Platone non ha avuto paura di cambiare idea pur rimanendo se stesso. Tutta la sua filosofia è incentrata sulla teoria delle idee, ma nell’ultima parte della sua vita non ha avuto paura di modificarla, di metterla in discussione, di attaccarla lui stesso. Ha dubitato di quello che lui stesso aveva creato. E così ha cercato di perfezionare, o per meglio dire di migliorare, la sua teoria. A me questo piace, mi piace chi è capace di dubitare di se stesso, non per distruggersi, ma per ricostruirsi un po’ meglio di prima.
E infine… farei direttamente parlare lui: «L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuori di se non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. [...] Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore». Come si può non “amare” qualcuno capace di scrivere una cosa così piena al tempo stesso di passione e di grazia, di senso e di eleganza, in una sola parola di vita?