venerdì 30 novembre 2012

Uomini donne e pubblicità


Già che in questi giorni ho portato avanti l’argomento sulle primarie innanzi tutto premetto (perché qualcuno me lo ha chiesto) che dopodomani voterò chi è più affine alla mia sensibilità politica, chi sento più vicino a me nel suo programma riguardo ai temi che più mi stanno a cuore e che sono: lavoro, scuola pubblica, università pubblica, sanità pubblica, welfare, integrazione e ecologia. Detto questo, però, vorrei dire che lo scontro televisivo fra Renzi e Bersani è stato schiacciante. Renzi è un uomo televisivo, che sa essere molto convincente, che sa dire cose condivisibili, probabilmente privo di una certa profondità, ma in questo mondo la profondità è – ahimé – proprio un suppellettile. Bersani è andato avanti di metafora in metafora e se posso dire era un po’ ridicolo. E soprattutto alla fine… come ha detto un mio collega a scuola, Renzi era pronto per andare a ballare in disco, Bersani quasi quasi non riusciva a finire lo scontro dal sonno che aveva…
Ribadisco. Io so cosa voterò ma credo proprio che possa accadere di tutto.

Comunque. Oggi ho deciso di scrivere un post proprio stupidino privo di ogni possibile profondità. Ero in macchina e hanno dato alla radio Shoud I Stay or Shoud I Go dei Clash. Ve la ricordate? E soprattutto vi ricordate la pubblicità della Levis (dei primi anni Novanta) con il modello moro che gioca a biliardo e con questa canzone come colonna sonora? Io ero piccola ma in quanto ragazza undicenne sviluppata ricordo bene quella pubblicità ammiccante e ricordo che il tipo ai suoi tempi era considerato un figo Ecco il video: guardatelo prima di continuare… Levis 1991
Ora: non vi fa un po’ ridere con quel ciuffo tipo Travolta?

Questo episodio ispira le seguenti riflessioni che hanno come tema la pubblicità. O meglio, il maschio e la pubblicità. Dunque, un giorno una persona di sesso maschile (non posso svelare il nome!) mi ha confessato che a lui tutti questi cartelloni per strada che raffigurano ragazze mezze svestite o quasi svestite o svestite tout-court lo deconcentrano, soprattutto all’uscita dell’autostrada sono molto pericolosi perché, tra la velocità e la distrazione, rischiano di causare incidenti. Era serio. Bene. Ovviamente a me tali immagini di donnine succinte non mi distraggono, anzi, fondamentalmente non le guardo. Al più mi infastidiscono, talvolta alcune le trovo finanche offensive. D’altra parte per noi donne sia per strada che in tv non ci sono molte immagini di uomini discinti o semi nudi. Perciò mi sono chiesta: ma mi distrarrebbero se le vedessi? La risposta è no. Credo di poter parlare per il genere femminile in quanto sua rappresentante. Gli uomini sono conquistati dalle immagini, dalla finzione, penso più di noi. A me le immagini non suscitano nessuna particolare emozione: posso commentare, posso al massimo sdarmi nell’espressione “è proprio un bel vedere!” (e questo lo faccio) e una certa piacevolezza, si sa, il bel vedere la provoca, ma certo non potrebbero distrarmi per strada e non potrebbero conquistarmi in tv. Sono pratica. Per me contano solo carne e ossa. Delle immagini non mi importa niente. E ora mi spiego: rischio l’incidente solo e soltanto se vedo Brad Pitt ( o Viggo o Fassbender o qualcun altro del gruppo) attraversare la strada vivo vegeto e reale, ma state certi che non mi schianto contro un albero  se vedo un cartonato di Brad Pitt attraversare la strada.

Detto questo, va detto che la pubblicità ha fatto proprio di tutto per distruggerci i nostri sex symbol degli anni scorsi. Ricordate Banderas in Zorro? E ora lo vediamo a fare i biscotti nella casa del Mulino Bianco. Ma come è possibile? È un’operazione forse per farci sentire vecchie?
E anche Brad Pitt. Sempre bellissimo, è vero. Ma per rendergli giustizia torniamo a una pubblicità della Levis, sempre degli anni Novanta, credo del periodo di Thelma e Louise (ma forse sbaglio)… io Brad preferisco sempre ricordarmelo così.
E vi lascio con lui. Non è vivo vegeto e reale, ma, insomma, certo, non neghiamoci del tutto il bel vedere…
Brad Pitt Levis

domenica 25 novembre 2012

Democratic day


Sono qui davanti a Milan-Juve e siccome questa partita è un po’ una noia – e, per la cronaca, non inquadrano quasi mai il più belloccio in campo, ossia Amelia, il portiere del Milan – ho deciso di scrivere qualcosa sulla giornata di oggi. La giornata delle primarie.
Innanzi tutto, gli elementi spassosi della giornata:
1) Renzi non ha fatto che ripetere di iscriversi prima delle primarie per non fare la coda, ma ha aggiunto che, nel caso uno non ci riuscisse, di andare comunque a votare perché – cito – «Meglio perdere 15 minuti che 5 anni». Bon… altro che 15 minuti! Pare che Matteo si sia fatto due ore di fila, e a me fa abbastanza schiantare, e me lo vedo in Piazza dei Ciompi a discorrere con gli anziani.
2) Mentre ci sono le primarie del PD, il PDL raccoglie le firme per le sue. Che però non si sa se ci saranno. Berlusconi non vuole. Alfano, poveraccio, dal canto suo cerca di dire che non vuole candidati indagati (e qui siamo veramente al paradosso, dovrebbe essere ovvio, che lo si debba chiedere è veramente incredibile) e il partito gli si ribella (parliamone…). Insomma, sembrano davvero alla frutta. E questo, lo devo davvero dire, mi regala una  intima e succosa soddisfazione.

Torniamo alle nostre primarie, comunque. Ho votato, poi, all’ora di pranzo, dopo la messa (vorrei sottolineare che cittadina modello!) e non vi dirò per chi (almeno, non sul web). Io e F. 20 minuti di coda li abbiamo schiacciati, ma ci siamo pure divertiti (non ci si capiva nulla fra pre-registrazione, registrazione e non registrazione): si respirava un’aria di partecipazione e di democrazia. È quello che stanno tutti blaterando da ore. Ma è bello e vero che, se la cittadinanza è chiamata a decidere, a noi piace decidere e lo facciamo. Perciò il numero dei votanti è stato alto. Ho appena sentito  90000 a Milano, mi sembra super (per Pisapia furono 40000 ed era già un successo).
Le previsioni le sto ascoltando, ma le risparmierò in questo post. Certo, la situazione italiana è veramente una merdaccia. Certo, ognuno dei candidati non è per me convincente più del 60%. E ancora, lo scontro TV è stato un mix fra X Factor e il Milionario. Ok. Ma di questa giornata sono contenta. Vorrei provare a esserlo, perlomeno. La partecipazione è sempre qualcosa di positivo, esprime una voglia di rinnovamento, un tentativo di voler far sentire la propria voce, un desiderio di speranza.
Ecco, è così, io personalmente vorrei poter avere il diritto e anche il piacere di sperare. Perciò… tra poco finirà la partita e poi seguirò in Onda… ho deciso di godermi la serata, comunque vada.

domenica 11 novembre 2012

Da Socrate a Platone. Le contraddizioni di Atene e lo stato ideale


Socrate era un buffo ometto, secondo me. Bruttino, si aggirava per la città a interrogare la gente e a distruggere con l’arma dell’ironia le convinzioni altrui. Platone invece per me era belloccio (cioè, sempre per quella storia delle spalle, cioè, il fatto che il nome pare alludere agli ampi pettorali). Però, sebbene si metta sempre in discussione, non sembra aver ereditato l’ironia – e l’autoironia – del maestro.
Ma che rapporto esiste davvero fra Socrate e Platone? Nessuno può rispondere a questa domanda, per la semplice ragione che Socrate non ha mai scritto niente e quasi tutto quello che sappiamo di lui lo dobbiamo a Platone. Ma, dato che il protagonista di tutti i dialoghi di Platone si chiama Socrate, dove finisce davvero Socrate e dove comincia davvero Platone? Quale è, in altri termini, il Socrate storico e quale è il personaggio creato da Platone?

Chi ha studiato filosofia sa che vi sono dei dialoghi considerati socratici nei quali perlopiù si racconta la vita e la speculazione del maestro; si sa anche che l’uso del dialogo era il modo con cui Socrate si approcciava alle persone: faceva domande, cercava risposte, metteva a nudo la banalità delle risposte ricevute e spingeva l’interlocutore a pensare davvero, a non rimanere fermo a un sapere precostituito, a indagare, a partorire un sapere nuovo che può provenire solo dal confronto con l’altro e dall’analisi di se stesso. Al contrario, si sa che la dottrina delle idee è il punto di inizio e di arrivo della filosofia platonica.

Tutto questo è vero. Ma è poco. Il rapporto fra Socrate e Platone è qualcosa di affascinante e complesso. Socrate è il maestro. Platone è il discepolo che ha amato più di ogni altro il suo insegnamento e che, forse proprio per questo, ha guardato in se stesso ed è stato in grado di costruire la sua filosofia e il suo pensiero.
Socrate è vissuto davvero per 70 anni in una città (Atene) stimolante e viva, ma attraversata da contraddizioni e inquietudini. Socrate ha visto l’apogeo di Pericle e l’affermarsi della democrazia, ha visto la nascita dell’impero navale ateniese, ma ha visto anche l’amore per la libertà e l’orgoglio per la democrazia trasformarsi in smania per il potere, in relativismo morale, in violenza giustificata dal mito del più forte. Ha visto la potenza di Atene sgretolarsi durante la Guerra del Peloponneso contro Sparta, ha visto Pericle morire durante la peste, ha visto l’impero navale sfaldarsi, ha visto l’insediarsi di un governo tirannico voluto dalla rivale storica Sparta.
Socrate amava Atene più di ogni altra cosa. Lo dice chiaramente. Anzi, è Platone che glielo fa dire chiaramente. Non importa se sarà il tribunale ateniese a condannarlo a morte, Socrate ugualmente deve tutto ad Atene. Solo ad Atene in quel preciso momento storico si poteva essere filosofi. Solo ad Atene un uomo come Socrate, che non apparteneva a una famiglia facoltosa o all’aristocrazia, poteva emergere. Solo ad Atene aveva senso discutere sulle leggi, sentirsi cittadino, confrontarsi con gli altri. Atene ha dato tutto a Socrate. Socrate lo sa, e accetta di buon grado e con la sua consueta ironia la condanna («Altro che infliggermi una multa ragazzi, la città dovrebbe pagarmi un vitalizio per quello che ho fatto qui». Questa battuta qualcuno non la prende bene, e infatti la sentenza sarà modificata da pagare un’ammenda a subire la pena di morte).
 Il ragionamento di Socrate è semplice: io ho dato tutto ad Atene, Atene ha dato tutto a me, fino alla fine io ho cercato di mantenere vivo questo legame, ma se non è più possibile, intendo bere la cicuta e morire qui, qui dove sono sempre vissuto, qui dove c’è tutto quello che ho amato. La fine del sodalizio fra Atene e Socrate, in altri termini, non deve spezzarsi con la morte; al contrario, è offrendosi alla morte che Socrate lo suggella.

Platone no. Platone ha conosciuto solo per sentito dire l’apogeo di Atene, il suo periodo più prospero e d’oro. Platone ha visto solo la violenza, ha conosciuto la sconfitta, ha visto una democrazia populista e un po’ corrotta. E in questo clima non idilliaco ha conosciuto e seguito Socrate. Socrate, l’uomo più giusto dei suoi tempi, dice spesso Platone. Socrate si sentiva perfettamente integrato ad Atene. Platone no, Platone non poteva perdonare ad Atene di aver condannato a morte Socrate. E se Socrate beve tutto tranquillo la cicuta pacificato con il mondo e con gli altri (E a chi gli propone di fuggire dal carcere risponde tra le altre cose «Ma dove dovrei andare? Sono sempre stato qui, e c’ho pure settant’anni, sono vecchio!!»), Platone non riesce proprio ad accettare questo smacco che gli provoca così tanto dolore.

Secondo me, è qui che Socrate e Platone si dividono. Socrate era il cittadino di Atene, né più né meno. Platone non poteva esserlo, e con tutte le sue forze ha cercato di creare con il pensiero uno stato perfetto, lo stato che non avrebbe mai mandato  a morte l’uomo più giusto dei suoi tempi, il maestro. E da qui nasce l’interrogazione sull’idea di giustizia, sull’idea di bene, sull’idea di bello. Platone sapeva che questo stato non esisteva né sarebbe mai esistito, ma doveva crederci. Perché questo doveva essere lo stato ideale a cui tendere, per farne sulla terra uno che non fosse perfetto, ma se non altro migliore di quello attuale.

sabato 10 novembre 2012

Omaggio agli Stati Uniti


Dal discorso di Obama alla Nazione: 
Ecco cosa può essere la politica. Ecco perché le elezioni contano. Non è poco, è una cosa grande. È importante. La democrazia in una nazione di 300 milioni di persone può essere caotica e complicata e rumorosa. Abbiamo ognuno la propria opinione. Ognuno ha cose in cui crede. E quando attraversiamo momenti difficili, quando prendiamo grandi decisioni come paese, questo necessariamente mette in campo passioni e controversie.
Tutto questo non cambierà dopo stanotte, e non deve farlo. Tutto ciò è simbolo della nostra libertà. […] Ma nonostante le nostre differenza, molto di noi condividono certe speranze per il futuro dell'America. Vogliamo che i nostri figli crescano in un paese dove abbiano accesso alle migliori scuole e all'insegnamento dei migliori docenti. […]. Crediamo in un'America generosa, in un'America che ha compassione, in un'America tollerante, aperta ai sogni della figlia di un immigrato che studia nelle nostre scuole e crede nella nostra bandiera. […] Ho sempre creduto che la speranza è così ostinata dentro di noi, nonostante tutto, che ci aspetta qualcosa di meglio, se abbiamo il coraggio di continuare a tendere verso ciò, di continuare a lavorare, di continuare a lottare.
America, io credo che possiamo costruire sul progresso che abbiamo ottenuto e continuare a lottare per nuovi lavori e nuove opportunità e nuove certezze per la middle class. Credo che possiamo mantenere le promesse dei nostri fondatori, nell'idea che se si è disposti a lavorare sodo, non importa chi sei o da dove viene o che faccia hai o chi ami. Non importa se sei nero o bianco o ispanico o asiatico o indiano d'America o giovane o vecchio o ricco o povero, abile, disabile, gay o etero. Se hai voglia di provare in America puoi farcela!
Credo che possiamo afferrare il futuro insieme perché non siamo divisi come suggerisce la nostra politica.[…]. Siamo più grandi della somma delle nostre ambizioni individuali, e rimaniamo più di una manciata di stati blu e rossi. Siamo e saremo per sempre gli Stati Uniti d'America.


Da American Land (Bruce Springsteen):


There’s treasure for the taking   C’è un tesoro a disposizione
for any hard working man per ogni uomo che lavori duro
who’ll make his home che costruirà la sua casa
in the American land nella terra americana

The McNicholases, the Posalskis I McNicholas, i Posalski
the Smiths, Zerillis, too gli Smith, anche gli Zerilli
the Blacks, the Irish, Italians i neri, gli irlandesi, gli italiani
the Germans and the Jews i tedeschi e gli ebrei
they come across the water arrivati attraverso il mare
a thousand miles from home mille miglia lontano da casa
with nothing in their bellies con le pance vuote
but the fire down below ma il fuoco dentro

They died building the railroads Morirono costruendo le ferrovie
they worked to bones and skin lavorando sino a ridursi pelle e ossa
they died in the fields and factories morirono nei campi e nelle fabbriche
names scattered in the wind e i loro nomi dispersi al vento
they died to get here a hundred years ago morirono per arrivare qua cento anni fa
they’re still dying now e ancora muoiono oggi
their hands that built the country le loro braccia hanno costruito il paese
we’re always trying to keep out stiamo sempre cercando di tenerle fuori


domenica 4 novembre 2012

Le mie avventure lavorative - Parte IV


Eh… questa puntata è ancora un nervo scoperto per me. Cercherò di essere il più obiettiva possibile, anche se è davvero difficile porre quella distanza che consente una maggiore obiettività. Perciò spero di non ferire nessuno con questo post: si tratta sempre di quello che io ho percepito, e non pretendo pertanto di essere depositaria di una verità assoluta. Quella di cui sto per parlarvi è solo la mia verità.

Alla fine del 2006 ho cominciato a collaborare con un prestigioso istituto culturale fiorentino, il V.: tra prestazioni occasionali e contratti a progetto, mi sono occupata di ricerca, di editing e redazione di volumi, di organizzazione e segreteria di convegni, piccole mostre e conferenze. Devo molto al V. sia in termini di formazione e maturazione lavorativa, sia in termini affettivi.
Da una parte, cioè, mi ha permesso di collaborare con l’Università e con altre realtà culturali fiorentine, mi ha concesso di fare per anni un lavoro bello e gratificante, in linea con i miei studi, un lavoro che mi piaceva e in cui credo di essere stata brava. Ho sempre avuto un buon rapporto con il mio responsabile (dopo l’esperienza nella pubblicità all’inizio che fosse una persona pacata e niente affatto iraconda mi sembrava quantomeno strano… ero sempre in attesa che esplodesse... prima o poi!). Per quello che mi ha trasmesso lo stimo molto. Mi ha anche ridato molta della fiducia in me stessa che con la MTC se n’era bellamente andata.
D’altra parte, gli anni al V. sono stati davvero i più pieni di vita per me. Le persone che hanno popolato quegli anni mi hanno cambiata e arricchita. E la quotidianità, fatta di caffè alle 11 con i colleghi, di teini (martedì dopo il lavoro) con M., e di chiacchierate con C., E. e le altre, bé, era una coperta sicura, anche quando mi sentivo malinconica, o agitata, o avevo combinato qualche stronzatella delle mie.

E, dopo aver creato questo clima idilliaco, intendo spezzarlo a colpi di accetta. Vi chiederete: ma com’è che non lavori più lì? Destino dei contratti a progetto: sono fatti per finire, anche quando lavori in un luogo per anni, con continuità, come è accaduto a me. E finiscono, vorrei specificarlo, con un calcio in culo, cioè senza cassa integrazione o altri regalini simili. Finiscono, e basta, come finisce un amore; tante grazie e tanti saluti.

E ora vi racconto com’è finita per me. Il nostro boss è andato in pensione, niente di più niente di meno. Lui dirigeva un settore del V.: senza di lui questo settore semplicemente non esiste più (o meglio, esiste, nel senso che la porta è aperta e che è rimasta una sala di consultazione, ma nessuno dei progetti che seguivamo c’è ancora), e tutti noi collaboratori (una decina) siamo stati mandati a casa.
A suo tempo pensammo insieme di scrivere una lettera a Renzi. Non tanto perché ci si aspettasse una soluzione, quanto per segnalare un problema, per essere visibili. Voglio dire, perché “esautorare” un settore che è vissuto 30 anni come se non ci fosse mai stato? E poi… si può sempre discutere nel merito dei singoli progetti, ma è vero che noi collaboratori eravamo un gruppo di studiosi, tutti giovani e molto qualificati, ed è quantomeno triste prendere a martellate un gruppo di lavoro. Ma la lettera (che è stata scritta) non è mai partita. Siamo stati bloccati da dinamiche interne: quando in un luogo di lavoro esistono settori diversi, non è detto che dialoghino fra loro o che abbiano interessi condivisi. Siamo stati vittime di questa situazione, e questo ha diviso anche noi. E devo dire che è stato questo a ferirmi di più: la consapevolezza che, per quanto si possa essere forti e coesi, a volte non basta, perché gli eventi esterni sono capaci di essere più forti di te e delle tue intenzioni.

Così, a luglio 2011, è finito tutto (qui forse ho esagerato con il patetismo, il racconto mi ha preso la mano!!!). Non è stato tanto facile per me, soprattutto per quello che rappresentava il V. da un punto di vista affettivo. E anche perché non sono molto brava ad affrontare le separazioni o gli abbandoni, mi segnano in modo indelebile.
Non è stato poi facile digerire un finale così umiliante e logorante. Sapete cos’è offensivo? Che è come se non avessi perso il lavoro, perché in fondo sono sempre stata a progetto, come se il mio lavoro fosse di serieB rispetto a chi è assunto a tempo interminato. Eppure io ero lì, tutte le mattine e anche diversi pomeriggi, da cinque anni. Non è come perdere il lavoro? 5 anni non sono 20, ma per una persona di 33 anni come me è un ciclo di vita, è come il tempo delle Elementari, delle Scuole Superiori, dell’Università. Mi dispiace, sono anni sufficienti per starci male.

Sapete però che io non sono una tipa che si scoraggia. Se piango poi mi rialzo. E così, dopo il V., ho veleggiato verso una nuova avventura lavorativa (…pessima ma tutta da raccontare… nella parte V!).

Intanto dedico questo post ai miei ex colleghi (e sempre amici) del V. con tutto il mio affetto e la mia stima.