sabato 23 giugno 2012

Le mie avventure lavorative. Parte I


Avevo promesso di raccontarvi le mie avventure lavorative a puntate e comincerò oggi. Vorrei però innanzi tutto mettere le mani avanti: ognuno di noi percepisce le situazioni che vive secondo la sua sensibilità e io potrò raccontarvi quello che ho vissuto solo attraverso il mio punto di vista. In altre parole, descriverò episodi che sono realmente accaduti ma ovviamente filtrati dalle mie emozioni, dai miei pensieri e dalle mie opinioni. Non posso promettere perciò oggettività. Ma c’è una cosa che posso assicurarvi, ed è onestà. E, spero, anche un po’ di ironia.

E così… eccoci qua. Mi sono laureata in filosofia nel 2003. Ho provato qualche esame di dottorato ma non sono riuscita a passare. All’inizio del 2004 ho fatto un colloquio in una agenzia pubblicitaria e sono magicamente entrata, prima come stagista per tre mesi e poi con un contratto a tempo indeterminato con il ruolo di responsabile casting. Le mie competenze in materia erano pari allo zero (infatti mi sono presa delle parti a culo indescrivibili) e questo contratto a tempo indeterminato, l’unico che mi sia stato fatto in tutta la mia vita lavorativa, era veramente inspiegabile. Ed è davvero un paradosso che mi sia stato fatto nell’unico posto in cui non centravo nulla e in cui non sapevo fare nulla (una laurea in filosofia, 24 anni, nessuna esperienza lavorativa, parliamone. La telecamera professionale non so nemmeno come si accende, e quella per profani non riesco a usarla perché in genere quando devo fare le cose per l’agitazione mi tremano le mani. Per finire sul video non riesco a riconoscere quando le immagini sono sformate, non dico altro). Comunque, l’agenzia pubblicitaria (che chiamerò MTC per comodità) è molto seria, costituita da persone tutte assunte a tempo indeterminato, diverse anche giovani, evidentemente è per questo che hanno fatto lo stesso contratto anche a me. Poi mi sono impegnata e ho cercato di imparare il più possibile (sulla telecamera resto una schiappa ma un programma semplice di montaggio ho imparato a usarlo), avranno apprezzato, chi lo sa. Comunque, i primi tre mesi di stage li ho passati a scrivere sceneggiature; poi c’era questo posto vacante di responsabile casting e mi è stato proposto. Ho detto sì ed ero anche tutta contenta perché la MTC si occupa di pubblicità di giocattoli (avete presente le pubblicità che vanno in onda il pomeriggio su Italia1? Ecco, quelle. Un paio di pubblicità sulle bamboline Bratz le ho pure scritte io, eh eh!!) e quindi si trattava di fare i casting ai bambini e di stare con loro sul set durante le riprese. Onestamente mi sembrava una figata. Bé, mi sbagliavo.

Con i bambini andava benissimo. Alcuni erano molto affettuosi, tanti, ma proprio tanti, io li ricordo con grande amore e nostalgia. Il prototipo poi del bambino piccola star bello e viziato che fa la pubblicità io non l’ho mai visto. Se è viziato non può lavorare tante ore sul set, perché dopo un po’ è già lì che si lagna, tutto qua. Ovviamente ci sono una serie di aspetti eticamente discutibili: è giusto tenere un bambino di 7 anni sul set per 8 ore? È giusto pubblicizzare tutto questo inutile giocattolume per invogliare il consumismo? Ma questi sono problemi che vanno oltre il lavoro della MTC e riguardano tutto il mondo della televisione. Sulla MTC io posso dire solo che loro erano serissimi e che il lavoro era curato all’estremo e in ogni dettaglio: perché una pubblicità sia esteticamente bella da guardare ogni inquadratura dev’essere studiata, illuminata, angolata in modo perfetto, anche se resterà nel campo visivo dello spettatore per neanche 5 secondi. Se c’è una  cosa che ho imparato dalla MTC e per la quale sentitamente ringrazio è che in ogni lavoro ci vuole estrema precisione. Anche quando sembra che non serva. Se bisogna consegnare qualcosa velocemente si tende a essere più superficiali. Sbagliato. Chi riceverà il lavoro lo vedrà. Per cui bisogna consegnare in tempo ma non cedere alla disattenzione che a volte la velocità porta con sé. E se non si riesce a mettere insieme questi due aspetti sono fatti tuoi, o impari a farlo o sei fuori. Su questo io credo di essere marziale ma è la MTC che me l’ha insegnato.

Ma, dicevo, una figata non era. Se pensavo di fare l’asilo con i bambini (cosa che mi sarebbe piaciuta) mi sbagliavo. C’erano molte cose a cui dovevo stare dietro e a cui non ero brava a stare dietro. Credo di essermi svegliata più volte nel cuore della notte maledicendomi perché non avevo chiesto alla mamma del bimbo X se per caso non gli fosse caduto un dente: avevo il terrore che si presentasse sdentato alle riprese e a quel punto mi avrebbero dato una bella ripassata. Io odio sbagliare e qui era troppo facile sbagliare. E poi sono caratterialmente insicura per cui non potevo difendermi, perché mi sentivo sempre in difetto. E c’è da dire che il responsabile era una persona molto capace nel lavoro ma un tantino collerico e io lo temevo assai. Quando mi gridano contro anche cose pesanti io non riesco a prenderla bene, mi sento umiliata, ferita, la mia autostima precipita a terra, non riesco a reagire e se sono nella fase premestruo ci sta che ci pianga per giorni. Inoltre va detto anche che ho lavorato alla MTC nel periodo sentimentalmente più difficile della mia vita, e di certo questo non mi aiutava. Per concludere, all’inizio del 2005 ero ormai tipo in depressione e piangevo con una certa anormale inopportuna regolarità (non solo nel premestruo).

Ma un giorno le cose sono improvvisamente cambiate. Era aprile, ero in macchina, stavo andando infelicissima a lavorare quand’ecco che qualcosa in me si ribella. «Non posso andarmene senza un’alternativa, ma se avessi un’alternativa potrei. Trovala, Madda». Dopo l’Università avrei voluto fare il dottorato perché mi piaceva fare ricerca, ma non ero passata agli esami. Forse, ho pensato, non sono brava a sufficienza. Però l’altra cosa che mi piace, mi piace tantissimo, oltre a stare con i bambini, è insegnare. E per insegnare nel 2005 (anno in cui si stava svolgendo questa conversazione dentro di me) bisognava fare una sorta di scuola di specializzazione a cui si accedeva tramite concorso. Mi sono detta: «questo concorso lo puoi passare, se studi. Non devi necessariamente essere molto brava, basta studiare, tanto e bene». E siccome studiare mi riesce, e a scuola e all’Università l’ho sempre fatto senza fatica, ho pensato che avrei potuto farcela. E così, improvvisamente rinfrancata e decisa, sono andata a lavorare, e da quel giorno di aprile ho studiato tutte le notti e diversi fine settimana. E a settembre, quando ho fatto l’esame, sono entrata nella scuola di  specializzazione per l’insegnamento. Ma non solo. Ho deciso di provare un ultimo esame di dottorato, ed incredibilmente questa volta è andata: ho vinto la borsa di studio.

Da qui sono iniziate molte cose. Lo studio di Platone, certamente. Una maggiore autostima, forse. E la mia vita da precaria. Ma non ho il benché minimo rimpianto.

venerdì 15 giugno 2012

La libertà in Platone


Un po’ di tempo fa ho letto sul blog della mia amica N. un bel post sulla libertà. Volevo risponderle ma poi mi è venuta voglia di scriverne a mia volta uno io sullo stesso argomento. Restringendo il campo mi sono chiesta: qual è la posizione del nostro Platone sulla libertà?

Come dice giustamente N., i greci, quando parlavano di libertà, intesa nel senso di eleutheria, si riferivano alla sfera politica e militare. È noto che Atene fosse una città democratica, in cui a tutti era data la possibilità di partecipare alla vita politica (in realtà la questione è un po’ più complessa, ma non voglio annoiarvi!). E gli stessi cittadini formavano con orgoglio l’esercito, a cui contribuivano ognuno con i propri mezzi e le proprie possibilità. In una tragedia di Eschilo, quando la sposa del re persiano Dario chiede all’ambasciatore dei greci chi sia alla guida del loro esercito, lui con simbolica fierezza risponde : «Di nessun uomo sono schiavi o sudditi».

E ora Platone. Platone non parla molto di libertà. Non è uno dei suoi argomenti preferiti. Di sicuro non ne parla in termini politici. Ma si può dire che nella sua filosofia è presente in modo profondissimo il tema della scelta.
Per capire la sua posizione è necessario tornare al mito di Er, lo straordinario racconto che chiude il decimo libro della Repubblica. Er, eroico soldato panfilo morto in battaglia, torna sulla terra per raccontare quello che ha visto nell’aldilà. A tutti gli uomini è dato reincarnarsi in un’altra vita e questa vita può essere scelta. L’uomo è responsabile della vita che sceglierà per sé, perché la vede e consapevolmente la sceglie. In questo senso è chiaramente libero.
Ma c’è un problema. Se mi sto reincarnando vuol dire che ho già vissuto un’altra vita, e la mia vita precedente inevitabilmente mi condizionerà nella scelta della prossima vita. Io posso scegliere solo in base a ciò che so. E così Platone mette magistralmente insieme due concetti che mai possono essere scissi: la libertà e la necessità. C’è la responsabilità individuale (io scelgo la mia vita), ma c’è anche un margine di involontarietà (scelgo la mia vita in base a ciò che so e in base a ciò che ho già vissuto, e non posso in alcun modo fare di più).

Questo è un mito, ovvero un racconto. Cosa ci vuole dire realmente Platone? Che l’uomo è libero, certo. È responsabile delle scelte che farà, delle azioni che compirà, degli errori che seminerà lungo la sua strada. Ma che questa libertà è strettamente legata a ciò che siamo intimamente. Io sono libera e ho fatto determinate scelte. Ma se fossi nata in un’altra città, in un’altra epoca, in un’altra famiglia, con altre inclinazioni, magari maschio anziché femmina (aahh! Per fortuna sono donna!), o con qualunque altra differenza, bé, non avrei mai fatto certe scelte. Non ne avrei avuto la possibilità. Non ce ne sarebbe stato bisogno. O chissà che altro.  Perciò nel cammino della vita io sempre agirò – bene o male che sia – in base al mio contesto, in base a quello che inevitabilmente mi porto dietro e dentro.

In base a quello che necessariamente sono e a quello che liberamente sono diventata.

giovedì 14 giugno 2012

Questo post è dedicato a mio marito e al V.



Credo ormai di poter svelare che il V. sta per Varese, la squadra di calcio della città natale di F., che quest’anno, come già vi ho anticipato, ha militato in serie B. Militerà anche il prossimo anno in serie B, perché ha perso – ahimè – la finale playoff con la Samp.
Mi rendo conto che per iniziare è necessaria qualche nozione calcistica riguardante la serie B (giustamente, non vi siete tutti guardati Pedullà a Sport Italia il sabato sera alle 11!!!), altrimenti per alcuni sarà un po’ difficile seguirmi. Dunque, in serie B funziona così: le prime due classificate vanno direttamente in serie A  e quest’anno è toccato al Torino e a un mitico Pescara. Le successive quattro invece si scontrano ai play off, ovvero a una specie di torneo divisibile in semifinale e finale con andata e ritorno: la vincente del mini torneino va anch’essa in serie A.
Già l’anno scorso il Varese aveva disputato una mitica stagione: dopo la promozione dalla Lega Pro (la categoria inferiore) alla B è arrivato quarto e si è disputato i playoff, perdendo in semifinale con un odioso Padova (che comunque quest’anno è stato ampiamente punito per l’oltraggio, perdendo 3-0 in uno scontro diretto con il Varese, e arrivando settimo dopo essere miseramente crollato nel girone di ritorno).

Quest’anno però secondo me è stato ancora più spettacolare. La stagione è iniziata in modo disastroso. 7 punti in sei partite, se non ricordo male. (Amore, correggi se sbaglio).
Poi il cambio allenatore. Arrivo di Rolando Maran (e del vice, che sembra una barzelletta ma si chiama Maranere. Non potevano che allenare insieme questi due!). E improvvisa risalita della squadra. Il Varese non perde quasi mai in trasferta. Non ha una squadra con individualità fortissime come il Torino, la Samp, il Padova stesso o il Brescia, ma risale la classifica grazie al gioco di squadra. È bello da vedere (oddio, più o meno, alcune partite erano da pisolino pomeridiano).
A F. piace guardarlo, e per lui rappresenta il suo legame con la sua città e con la sua famiglia. E io a mia volta mi appassiono: in primis per empatia (meglio dividere le passioni con la persona amata, piuttosto che ignorarle o peggio ancora trovarle fastidiose), in secundis per necessità (dovevo farmelo piacere un po’ per forza altrimenti guardarmi Pedullà il sabato sera sarebbe stata una tortura!) e infine perché mi dico: «È una questione simbolica. Se ce la fa il Varese, che non è fortissimo, che viene dalla Lega Pro, che non ha una società ricchissima alla base, ce la faremo anche noi». Il Varese è arrivato quinto. Ha vinto una soffertissima semifinale ai play-off con il Verona. Ha perso in finale, con la Samp. Ad ogni modo una grande stagione, ha detto mio papà.
Vero. Infatti io sono soddisfatta. Diciamo così: se fosse andato in serie A mi sarei aspettata di vincere la lotteria oppure che a F. fosse improvvisamente offerto un posto da ricercatore a tempo indeterminato nel giro di 2 mesi senza neanche fare il concorso. Troppo per noi. A noi ci basta pensare che se si “gioca” bene si può fare bene e arrivare da qualche parte. Prima o poi. Non mi importa essere primi, mi importa solo avere qualcosa, perché ce lo meritiamo.
E il Varese qualcosa ce l’ha avuto. Se non altro, il meritato affetto e sostegno della sua città. E anche il mio.

E ora, prima di lasciarvi, qualche curiosità per divertirvi. Una femmina doc quando guarda una partita di calcio fa caso ad alcuni dettagli diciamo non troppo tecnici.
1) Il giocatore medio di serie B ha un tatuaggio sul braccio. Almeno i 2/3 di una squadra ce l’hanno. Vedere per credere.
2) I giocatori di serie A curano il capello neanche dovessero andare a una sfilata di moda. Il giocatore di serie B punta ad essere più stravagante. Il Varese in questo è maestro: si veda la capigliatura di De Luca e di Kurtić.
3) Alcuni cognomi segnano un destino. La difesa del Padova è formata da due tizi che si chiamano Schiavi e Legati. La difesa masochista: con questi due insieme direi che vuoi prendere goal!
4) Premio più carino del Varese: direi Plasmati. Un po’ troppo alto, ma fico. Il più carino della serie B è più difficile, ma magari ci penso e ve lo dico.
5) Premio mio preferito del Varese, come giocatore e anche come persona: il brasiliano Neto Pereira. Una bandiera.

Vi lascio con una foto. Questa sono io allo stadio alla finale di ritorno dei play-off. 



domenica 3 giugno 2012

Per farlo dovreste aver visto Jerry Maguire


Giovedì scorso ero a bere un aperitivo con la mia amica P. e il discorso è caduto su quanto siamo due attempate "gallinone". Per capirci: un conto è quando i sedicenni hanno 10 anni meno di te, un altro è quando hanno la metà dei tuoi anni; un conto è quando quelli degli anni  Novanta sono dei bambini in età più o meno scolare o sono nella pubertà, un altro è quando quelli nati nel 1990 o giù di lì vanno all’Università. E, ormai, ahimè, è così.

La mia amica P. mi racconta che se ne andava bel bella in giro in centro ed era pure contenta perché aveva appena realizzato uno shopping soddisfacente, quand’ecco che incrocia due sedicenni. Una di esse dice all’altra: «La conosci Please forgive me di Brian Adams?». E mentre la P. se la stava canticchiando nella testa, lieta dei ricordi che le evocava, l’amica della sedicenne (anch’essa sedicenne) risponde: «Io Brian Adams non so nemmeno chi sia». Io e la P. abbiamo frequentato le medie insieme e Brian Adams era una specie di istituzione per noi tredici-quattordicenni. Ricordo che  in IV ginnasio sono pure andata al concerto, con alcune compagne di classe e il padre di una di loro. Che una ragazzina di sedici anni non lo conoscesse, mi dice la P., è stato un colpo al cuore. Ma il punto è che lei, quando noi ascoltavamo Please forgive me, non era nemmeno nata.

Anche io ho per lei un aneddoto simile e glielo racconto. Durante una lezione di storia, per spiegare a N. (il ragazzino sempre sedicenne a cui stavo facendo ripetizioni) quanto gli arabi fossero evoluti rispetto agli Europei, cito una nota sequenza del film Robin Hood-Principe dei Ladri, in cui l’arabo Morgan Freeman presta a Kevin Costner (che interpreta Robin Hood) un cannocchiale, e Robin Hood si spaventa enormemente perché non ha la benché minima idea di cosa sia un cannocchiale e i nemici gli sembrano a un passo dal suo naso. Ora, a parte l’episodio, il punto è che, quando io candida candida dico a N.: «Hai presente il film Robin Hood-Principe dei Ladri?», lui risponde altrettanto candido: «No». Io non paga insisto: «Dai, quello con Kevin Costner!», e lui pazientemente ribadisce: «No, non l’ho mai visto, non lo conosco». Anche questa è una cosa impensabile, perché nessuno della mia generazione può non conoscere Robin Hood con Kevin Costner.

Eccolo qua, lo scarto generazionale. Un po’ inquietante, devo dire. D’altra parte c’est la vie. Dopo l’empasse iniziale ho però riflettuto sul fatto che alle sedicenni di oggi mancano alcuni dialoghi cult che noi femmine doc abbiamo imparato e fatto nostri guardando i film della nostra adolescenza e maturità. Perciò le sedicenni di oggi non potranno utilizzarli fra qualche anno quando avranno fra i venti e i trenta anni (o anche oltre…), come abbiamo fatto noi!

1) Una delle frasi celebri mie preferite è ad esempio contenuta nell’imperdibile film Quattro matrimoni e un funerale. Andie MacDowell è in taxi con Hugh Grant con cui ha avuto una precedente liason. Lei prima di scendere lo invita a casa sua e lui per ragioni che ora non vi spiego tentenna: «Sei sicura che sia una buona idea?», e lei: «Cercherò di resistere. Non sei poi così carino». Non so, magari funziona per convincere qualcuno a salire a casa vostra, anche se credo che dovreste assicurarvi che abbia un buon senso dell’umorismo, sennò non capisce che è una battuta!

2) Un film piuttosto brutto, ma che molte di noi conoscono perché ha segnato l’inizio della breve storia d’amore fra Tom Cruise e Penelope Cruz, è poi Vanilla Sky, remake di un altrettanto brutto Apri gli occhi. Dunque, l’ho visto quando ero all’Università, quindi è un po’ più giovane rispetto ai vari Robin Hood-Principe dei ladri e Quattro matrimoni e un funerale. Comunque ricordo che mi segnò il discorsetto che Cameron Diaz (nettamente la migliore del film) fa a Tom Cruise. La storia è questa: Tom Cruise è un tizio molto superficiale che si diverte parecchio e anche lungamente con Cameron Diaz fino a quando non incontra Penelope Cruz, che invece gli piace davvero. Diciamo che Cameron Diaz non la prende molto bene e, prima di causare volutamente l’incidente che renderà sfigurato Tom Cruise, gli dice: «Lo sai che quando fai l’amore con una persona il tuo corpo fa una promessa, che tu lo voglia o meno?». Ora, senza per forza provocare un incidente mortale, a me la frase è sempre piaciuta, e, si sa, nella vita uno che vuole solo divertirsi lo si incontrerà di sicuro. Per cui, dal momento che la storia con questo stronzo finirebbe comunque,  tanto vale levarsi lo sfizio di cantargliene quattro e essere almeno pronte a inchiodarlo con questa frasetta a effetto alle sue responsabilità.

3) E poi c’è la mia frase preferita in assoluto. Nel film Jerry Maguire. Sempre con Tom Cruise e stavolta Renée Zellweger. Tom Cruise si è lasciato con la moglie (Renée Zellweger, appunto) ma si accorge che è innamorato di lei e decide di riprendersela. Così corre da lei e le fa un lunghissimo discorsetto d’amore (10 minuti circa); lei non fiata, lo lascia parlare e alla fine risponde con la celebre battuta: «Mi avevi già convinta al ciao». Ora, diciamo che è difficile trovare un uomo che ammetta di avere torto e parli tre ore per scusarsi, ma nel caso vi capitasse, bé, lo trovo proprio super rispondere: «Mi avevi convinto al ciao».

Ma per farlo dovreste conoscere e aver visto Jerry Maguire.

sabato 2 giugno 2012

Oggi è il 2 Giugno ma Maggio non è finito bene...


Maggio non è stato un mese molto fortunato per l’Italia. Prima la bomba alla scuola di Brindisi, poi il terremoto in Emilia. Ora, io non vorrei parlare tanto di questi due tragici avvenimenti. Però sono accaduti e non vorrei proprio ignorarli come se non mi riguardassero. Perché al contrario mi riguardano, come riguardano tutti noi.

Sull’attentato alla Morvillo Falcone. Si poteva evitare di intervistare le compagne di scuola di Melissa? Che volevate che vi dicessero? Queste ragazzine hanno 16 anni, sono sotto shock, non possono andare in giro a sbandierare che non hanno paura e che combatteranno contro la mafia (sempre che di un attentato di mafia si tratta, anche se a me sembra molto più che probabile). Non possono farlo, perché hanno paura, e perché al momento non possono parlare della mafia: a loro è accaduto  di perdere in un modo assurdo e tragico una compagna, e tutto il resto non esiste. O è in secondo piano. Giustamente, direi. Tutto il resto, tutto lo sfondo, tutto quello che ora è tragicamente cronaca e poi sarà tragicamente storia, esiste per noi, per chi può porre una certa distanza; noi possiamo parlarne, ma loro no, non ora. Perciò sarebbe stato tanto meglio lasciarle in pace.

Sul terremoto in Emilia. Avete presente il libro La strada? È uno straordinario romanzo, ambientato in un futuro apocalittico: un padre e un figlio senza nome percorrono una lunga strada, per sfuggire al freddo dell’inverno, in un’America sopravvissuta a una non meglio precisata catastrofe che ha spazzato via ogni essere vivente, tranne gli uomini, peraltro rimasti senza cibo, senza città, senza la benché minima tecnologia. Ecco, tutte le volte che accadono catastrofi naturali a me viene l’ansia della Strada. A quel cielo grigio senza sole. Agli uomini che uccidono gli altri uomini per disperazione. E penso all’Italia o a un qualunque altro paese del mondo ridotto a un cumulo di rovine e macerie. Perciò vi prego. Ricostruiamo tutto. Velocemente. Con tutte le forze che abbiamo.