giovedì 31 maggio 2012

Equilibrio e pudore


Ho aperto questo mese con un post su Platone e vorrei concluderlo sempre con un post su Platone.

Com’è noto, sembra che Platone non amasse molto la poesia e soprattutto non vedesse di buon occhio quella che secondo me rimane la più bella opera filosofica e letteraria che sia stata mai scritta: la tragedia (greca, intendo). Nella Repubblica ha parole piuttosto forti contro la poesia (intesa anche nel senso di letteratura) e la tragedia: non sono educative, perché sono ingannevoli, ci dice, non svelano la verità, ci raccontano bugie con le quali è facili illudersi. Invece, prosegue Platone, a noi filosofi interessa il vero, interessa l’essenza delle cose, e non dei facili giochetti attraenti ma menzogneri.

Come al solito, anche in questo ragionamento si annida una contraddizione. Platone ha scritto pagine di filosofia teoretica pura ma anche di lirica poesia. L’ha fatto proprio deliberatamente: laddove il discorso razionale non può arrivare, bisogna lasciar parlare il mito, il racconto, proprio quell’ingannevole storia che sembra bandire nella Repubblica. E i suoi dialoghi sono così pieni di poesia: nel mezzo di una spiegazione concettuale ecco che si apre una breccia verso un mondo fantastico, fatto di carri alati, di cavalli neri e bianchi, di divinità che tessono il destino di ogni uomo, di eroi che tornano dall’aldilà. Platone stesso si è abbandonato alla poesia. È stato un grande poeta. Non solo. Pare che avesse scritto pure delle tragedie che poi ha bruciato, perché non era convinto.

Come stanno insieme queste due anime? Questa sferzante critica e insieme questa passione?  Bè, non che sia poi così strano amare ed odiare lo stesso oggetto o lo stesso soggetto, direi che ci capita molto spesso. È comunque un fenomeno spiegabile. E questo vale anche per Platone.

I problemi maggiori, intendo dire di conflitto maggiore, Platone li aveva con la tragedia. Perché lo sapeva benissimo che la tragedia greca è un’opera d’arte straordinaria, la forma letteraria e poetica più complessa e anche filosoficamente più densa, perché sa trattare di tutti i temi umani: la morte e la vita, la colpa, la vendetta e il perdono, la libertà e la necessità, il rapporto fra il cittadino e la comunità. Ma forse proprio per questa ragione, perché gli argomenti trattati sono così profondamente radicati nell’animo umano, Platone della tragedia aveva paura. I personaggi della tragedia provano passioni straordinarie: per un odio feroce sono in grado di uccidere la propria madre, per un tradimento subito di vendicarsi sui propri figli, per un errore di valutazione di punire chi non merita. I personaggi compiono azioni coraggiose e violente, terribili ma paradossalmente comprensibili, perché noi che guardiamo comprendiamo con chiarezza e lucidità le motivazioni che hanno spinto i personaggi ad agire, e anche le furiose emozioni che si sono scontrate nel loro animo.
La tragedia, secondo Platone, scatena, nell’animo umano, passioni contraddittorie e  infuocate, violente e forti.  Troppo forti. Per esse si uccide. Per esse si compie il male. Ed ecco perché Platone si pone verso la tragedia con duplice atteggiamento. Ne è attratto, perché è convinto che sappia scendere nei meandri della mente umana. Ma la teme, e teme che possa essere educativamente pericolosa, perché scende così a fondo da far vacillare anche noi che vi assistiamo.

Questa non è una buona ragione per bandire la tragedia dallo stato perfetto di cui parla nella Repubblica. Vero. Ma Platone alla tragedia risponde con la sua filosofia. Cerchiamo di conoscere le nostre passioni, anche quelle violente, ci dice. Ma non per abbandonarci con voluttà ad esse. Non facciamo sì che prendano il sopravvento e ci indeboliscano. Rispondiamo con l’equilibrio. E al dolore che ogni evento più o meno tragico porta con sé non rispondiamo con vendetta, con rabbia, con violenza (come accade ai personaggi della tragedia), ma con il decoro e il pudore di chi in tale dolore si immerge, e con la dignità e la misura che la ragione impone.

giovedì 17 maggio 2012

Io e la lettura


Ultime notizie dalla Francia…
1) Per fortuna non è caduto l’aereo di Hollande in viaggio per Berlino…
2) In linea con il programma di rassodamento ho fatto altri bagni dalla durata di 30 secondi l’uno.
3) Sono abbronzata ma in faccia mi sono un po’ sbruciacchiata e spelata, e non sono proprio un bello spettacolo.
4) Domani torniamo e devo dire che siamo stati proprio bene!

L’ultimo post dalla Francia lo dedicherò a una mia grande passione: la lettura. L’amore per la lettura lo devo interamente ai miei genitori. Mio papà ha letto con me L’isola del tesoro, I misteri della giungla nera, e soprattutto Michele Strogoff.  Michele Strogoff è divenuto presto il mio eroe e il mio uomo preferito in tutti i miei sogni da bambina (ho molto invidiato la sua amata, Nadia, in omaggio alla quale, sperando fosse altrettanto fortunata, avevo deciso di chiamare così una eventuale figlia).
Mia mamma, dal canto suo, ha letto con me Piccole donne, La piccola principessa e un libro meno noto ma a me molto caro, Otto giorni in una soffitta. Otto giorni in una soffitta parla di una bambina che per sfuggire alle angherie di qualche matrigna (almeno credo) scappa dai tetti e penetra nella soffitta di un’abitazione nella quale vivono non mi ricordo quanti fratelli. Questi fratelli la nascondono e si fanno in quattro per lei: le portano il cibo, i giocattoli, la riempiono di attenzioni e poi va a finire che la famiglia la adotta. La scena più bella è quando lei, non paga di cotanto interesse, è triste perché vorrebbe uscire e così i fratelli si organizzano, la vestono da maschietto e la portano a giocare a nascondino. Ora, io farei notare l’inverosimiglianza di questo romanzo: qualunque altro maschio sano e dotato di attributi avrebbe commentato: «Ohi, bellina, già ti nascondiamo qui e ti portiamo da mangiare, per cui ora te ne stai buona e non rompi con questa richiesta da viziatella di uscire fuori in giardino». In ogni caso la bambina di Otto giorni in una soffitta credo mi abbia segnato per sempre: mi sembrava una privilegiata, così coccolata ed amata da tutta questa schiera di uomini, e al tempo stesso un mito, perché mi sono sempre domandata come fosse riuscita a ottenere tanto e tale interessamento.

Oggi divoro più o meno un romanzo a settimana, e cerco di impegnarmi per trovare qualcosa che valga la pena leggere. Le mie fonti sono «La Repubblica» (perché la domenica c’è una bella paginetta dedicata alle recensioni dei libri) e «Il venerdì» (sempre per la stessa ragione). L’altra mia fonte è la mia amica C., anch’essa grande lettrice, a cui va il merito di avermi fatto conoscere, tra gli altri, il Cameron di Quella sera dorata e Un giorno questo dolore ti sarà utile. Devo dire che anche con il mio amico M. abbiamo avuto scambi di lettura molto interessante. Quando lavoravamo insieme, abbiamo colmato alcune lacune, comprandoci contemporaneamente (nel periodo in cui gli Adelphi erano scontati) Jules e Jim e Flatlandia. E inoltre come scordare quei tre mesi in cui eravamo in fissa con Vincenzo Malinconico, indimenticabile protagonista di Non avevo capito niente.

Tutto questo proemio per dirvi che ho da un paio di giorni finito Molto forte, incredibilmente vicino, e avevo promesso di scrivere qualcosa. Il piccolo Oskar ha perso il padre l’11 settembre ma pochi giorni dopo la tragedia, rovistando nell’armadio di famiglia, trova una misteriosa chiave chiusa in una busta con suscritto “Black” . Quella chiave, quella parola, quel mistero, sono l’unico modo che ha Oskar per mantenere un legame con il padre scomparso e così comincerà un viaggio per le strade e per le case di New York, bussando a tutte le porte dei Mr e Mrs Black della città. Ma la storia di Oskar non è solo la storia di un bambino che adopera la fantasia per elaborare un lutto; è la storia di una madre, che in qualche modo deve ricostruirsi una vita, è la storia di una nonna, anch’essa prigioniera di un dolore lontano e di un amore smarrito, è la storia di un nonno, che ha perso se stesso molti anni prima e non è mai stato in grado di ritrovarsi. È la storia di tutti i Mr e Mrs Black, ognuno con i propri sogni, le proprie sofferenze e le proprie umanissime manie. Ed è infine la storia di una città, New York, che fa da sfondo alla ricerca di senso della più tragica delle perdite.

Ci sono alcune cose di questo libro che non mi sono piaciute: l’ho trovato troppo ambizioso, nel senso che ha cercato di condensare in 350 pagine tutto il dolore dell’umanità (e c’è l’11 settembre, e la Seconda guerra mondiale, e Hiroshima, e basta, sii clemente, non c’era bisogno!). Voglio dire, bastava il dolore del bambino e i suoi incontri e la sua elaborazione del lutto per sintetizzare tutto il dolore dell’umanità. Poi mi hanno infastidito alcuni artifici un po’ ad effetto che l’autore usa: la pagina completamente bianca, quella colorata, e quella scritta talmente fitta da non farci leggere una parola. Si tratta di artifici che hanno una chiara ragion d’essere nel racconto, nondimeno, non mi piacciono, perché non sono funzionali. Ed infine, trovo che non vi sia molta psicologia: i personaggi sono tutti piuttosto simili. C’è una ragione, anche per questo, ovvero che il dolore ci rende in fondo simili, e lo trovo vero e giusto, ma a tutto c’è un limite: la nonna e il bambino non possono essere così simili!

Detto questo, Molto forte, incredibilmente vicino merita di essere letto, almeno secondo me. È pieno di poesia, è denso di lirica sofferenza ma anche di dolcissimo amore. Spinge a prenderci cura delle persone, a non aver paura di mostrare i nostri sentimenti, e a sentirsi parte di un dolore più grande che da personale e intimo diviene umano e universale.
E poi ci sono delle parti che ho trovato davvero super. Come questa: «Mi fissava con tanta intensità che mi chiedevo se mi stava ascoltando o stava cercando di sentire qualcosa di incredibilmente silenzioso sotto quello che stavo dicendo, tipo un metal detector che però non segnala il metallo, ma la verità».
E ancora questa: «E se l’acqua della doccia fosse trattata con un composto chimico che reagisce a una combinazione delle cose, tipo il battito del cuore, la temperatura del corpo, le onde celebrali, di modo che la pelle cambia colore secondo gli umori? Quando sei eccitato al massimo la pelle diventa verde e se sei arrabbiato, ovviamente, rossa, e se sei un merdaiolo diventa marrone e quando sei depresso blu. Così tutti sapremmo come si sentono gli altri, e avremmo più riguardo […] E un altro motivo per cui come invenzione sarebbe bella è che tante volte hai una sensazione forte e non sai cos’è. Sono deluso? Oppure ho solo tanta paura? […] Ma con l’acqua speciale potresti vederti le mani arancioni e pensare: sono contento! In realtà per tutto quel tempo sono stato contento, che sollievo!».
E se poi non vi convince e non vi va di leggerlo, bè, vi consiglio comunque di dare un’occhiata al capitolo intitolato Il sesto distretto. È la favola che il padre racconta al bambino la sera del 10 settembre per farlo dormire. Un grandioso omaggio a New York. E lo straordinario congedo di un padre verso suo figlio.

martedì 15 maggio 2012

Les Dimanches malins


Oggi in Francia avviene la Passation, ovvero il passaggio di consegne da Sarko a Hollande. La TV Francese seguiva la cerimonia dalle 8.45 di stamani, l’ho visto al tg ieri (e ho pure capito quello che dicevano, uau!). Hollande oggi pomeriggio andrà a rendere omaggio a Marie Curie e a Jules Ferry. E ora voi vi chiederete: Marie Curie ok, ma Jules Ferry… chi è costui? Ebbene, Jules Ferry è il fondatore della scuola pubblica. E al tg francese si sono subito preoccupati di dircelo con un bel servizio: i giornalisti sono andati in una scuola elementare e hanno cominciato a chiedere ai bambini se sapevano chi fosse (e i bambini lo sapevano).
Tanto sono rimasta stupefatta che mi sembrava di non aver capito bene. Due sono gli eventi straordinari, per una povera italiana come me:
1) Un presidente che rende omaggio al fondatore della scuola pubblica? Che dà così importanza alla scuola, per di più pubblica? Meraviglioso, mi ha aperto il cuoricino. Però poi ho riflettuto sul fatto che non sono francese e che mi tocca tornare in Italia, dove la scuola non gode di tutta questa considerazione.
2) Un servizio al tg sulla scuola? Con tanti bambini che alzano la mano e rispondono al giornalista? Da noi è impensabile: se si parla di scuola è solo per dirci che le scuole italiane sono fatiscenti, con i bagni impraticabili e i banchi tutti rotti. Oppure per raccontarci dei tagli sull’organico (e questo lo conosco bene, perché ne sono una vittima; ma vi racconterò la storia, abbiate pazienza, nei prossimi post).

La scuola. Il pubblico. I bambini. Io credo che la Francia su questo abbia molto da insegnarci.
E vi racconto un altro episodio a cui ho assistito personalmente domenica. Qui a C., dove io e F. ci troviamo, organizzano più o meno una volta al mese les Dimanches malins. Si tratta di una festa per i bambini: la Promenade, ovvero il lungomare, è interdetto al traffico tutta la mattina fino alle 3 del pomeriggio e viene riempito da una serie di giochi. Avevano montato una pista per le auto a scontro, i tavolini da ping-pong, un mini campo da calcetto, le funi per arrampicarsi, i materassi a molle per saltare, diversi scivoli gonfiabili… non scherzo, c’erano circa 4 chilometri ininterrotti di divertimenti, ed era pieno di bambini che, insieme ai genitori, facevano la fila per i giochi, oppure andavano in bici o sui pattini. Quasi quasi sullo scivolo ci volevo andare anch’io.

Un paese che sa occuparsi con così amore dei bambini è un paese civile. Se proprio non ci interessa e non riusciamo a essere un paese civile, propongo che almeno Firenze sia una città civile. Perciò lancio un accorato appello a Renzi: perché non le fai anche tu les Dimanches malins, gonfiando qualche gioco per bambino e bloccando il traffico sui viali una volta al mese? Se proprio non li vuoi gonfiare tu, i giochi, ti do anche una mano.

Secondo me sarebbe proprio bello.


Les Dimanches malins

domenica 13 maggio 2012

Je vous écris de la France de Hollande...


Une semaine de vacances pour nous! Nous sommes dans la Côte d'Azur. E ora con il francese mi fermo qui, perché sennò chissà che castronerie scrivo…anzi, chiedo cortesemente a N. e V., le mie amiche del corso, di controllare l’inizio del post (per esempio, mes amies, quel "dans" va bene?!)
Questo è il mio primo sole della stagione e forse ieri ho un po’ esagerato perché sembro una lampadina a neon. Per fortuna oggi il tempo non è bellissimo, e tra poco io e F. andremo a Nizza a fare una passeggiata e magari a vedere il museo Matisse.
Ma ecco qua alcuni pensieri sparsi relativi a questi due nostri primi giorni di vacanza:

1) Ieri abbiamo fatto il bagno, in un’acqua ghiacciata che vi raccomando. Ma impavida mi sono buttata, memore delle parole della nonna di Marjane Satrapi nel film Persepolis. Quando la bimba chiede alla nonna come faccia ad avere le tette così sode, lei risponde che tutti i giorni mette dei cubetti di ghiaccio. Perciò saggiamente medito: «Se nell’acqua ghiacciata ci metto non solo le tette ma tutto il corpo mi rassodo tutta». Con questo pensiero scolpito nella testolina ho fatto ben tre bagni (accompagnati da vergognosissimi versi e sentendomi le gambe in procinto di congelarsi). Intendo comunque perseverare anche nei prossimi giorni.

2) Nel  pomeriggio sulla spiaggia ero da sola (giocava il V. e mio marito se l’è guardato in streaming attaccato alla porta di casa per sfruttare al meglio la connessione dei vicini. Francamente mi è sembrato troppo, perfino per me, e così sono tornata solo per l’ultimo quarto d’ora di partita. Comunque, per la cronaca, il V. ha vinto!). Dicevo, in spiaggia mi sono messa a osservare i miei vicini di sole e la mia attenzione si è presto rivolta verso una famiglia formata da tre donne. La mamma era una signora sprint sui 40 con i capelli tagliati corti neri a spazzola. Una tipa tosta: quando è entrata nell’acqua congelata non ha battuto ciglio. La figlia maggiore era una ragazzina sui 15 anni, dai lunghi capelli ricci castani tenuti indietro da un elastico, non tanto alta ma con un fisico molto promettente. E la figlia più piccola era una bambina sui 12, magra e slanciata, con un grazioso costume a fiori e con una piccola coda di cavallo che teneva indietro i capelli lisci e castani. Curioso: si passavano non più di tre anni, ma si trattava di quei tre anni che trasformano una bambina in un’adolescente, e vedendole accanto era straordinariamente evidente.
Devo dire che le tre non si somigliavano affatto, ma ho ugualmente immaginato che fossero una famiglia perché erano così perfettamente assortite che mi piaceva immaginarle così. Non ero abbastanza vicina per ascoltarle (inoltre avrei avuto difficoltà perché parlavano in francese) ma siccome ho sentito la parola “Grenoble”, ho fantasticato sul fatto che giocassero al gioco delle lettere. (Cioè uno dice una lettera e gli altri devono dire una città con quella lettera, un animale con quella lettera, una pianta con quella lettera, eccetera). Chissà perché ho immaginato questo: erano allegre, ridevano, mi sembrava bello che facessero un gioco insieme.
Poi mi sono alzata io per fare un tuffo. Sapevo che si sarebbero voltate a vedere com’ero, che costume indossavo, se a stare al sole ero diventata un’aragosta (ebbene sì, lo ero diventata!) e cosa avrei fatto una volta impiedi. In quel modo che abbiamo noi donne di guardare le altre donne. Con quella curiosità femminile che ci rende simili. E così è stato. Mi hanno osservato mentre mi buttavo in acqua. In modo amichevole, senza malignità. Come io guardavo loro. Ho pensato che è proprio uno spreco non poter conoscere tutte gli sconosciuti  del mondo. Ho pensato a quante storie perdiamo. A quante vite non conosciamo. E a quanto però siamo pieni di momenti e episodi come questi, dove, anche se solo per un attimo, anche se solo nello spazio di uno sguardo, la nostra vita si intreccia in modo del tutto casuale e inconsapevole con quella di qualcun altro.

3) Il libro che mi accompagna in questi primi giorni di vacanza è Molto forte, incredibilmente vicino (Extremely Loud, Incredibly Close) di Safran Foer. È un bel libro, il primo che leggo nel quale si parla di un lutto legato all’11 settembre, e l’autore riesce a farlo in modo dolorosamente dolce e candidamente buffo mettendosi nei panni di un bambino che nel “giorno più brutto” ha perso il padre. Già il titolo è bello, almeno credo. È formato da due aggettivi che mi piacciono parecchio: forte e vicino. E anche gli avverbi usati in abbinamento sono notevoli: “molto” è nel senso di “estremamente”, cioè “è così forte che fa male”, e “incredibilmente” dà proprio l’idea di sorpresa, cioè “rimango senza parole per il fatto che sia così vicino”. Sono a pagina 126, alla fine vi dirò com’è. Però vi lascio con le ultime parole che ho letto, che mi hanno fatto venir voglia di scrivere questo post e che ho un po' fatto mie.

Eccole qua. «A me piacciono le persone riunite, forse è sciocco, ma che dire, mi piace vedere la gente che si corre incontro, mi piacciono i baci e i pianti, amo l’impazienza, le storie che la bocca non riesce a raccontare abbastanza in fretta, le orecchie che non sono abbastanza grandi, gli occhi che non abbracciano tutto il cambiamento, mi piacciono gli abbracci, la ricomposizione, la fine della mancanza di qualcuno, mi siedo in disparte con un caffè e […] osservo e scrivo, […], essere qui mi riempie di gioia il cuore anche se la gioia non è mia».

lunedì 7 maggio 2012

Ho promesso un post sul calcio...


Ho promesso al mio amico interista FI. un post sul calcio e così… eccolo qui!
Dunque, mi piace molto il calcio e seguo serie A, serie B (serie Bwin per l’esattezza) e pure Champion. La passione per il calcio ha origini lontane: mio babbo e mio fratello sono due pazzi tifosi del Milan. Mio babbo, che è un serissimo medico, davanti al Milan subisce una inquietante trasformazione: rimane muto con gli occhi spiritati rivolti verso lo schermo che proietta la partita, non sente né il telefono né le voci, si dondola su e giù dalla sedia senza parlare. Gioca al Fantacalcio tutti i fine settimana, l’anno scorso ha pure vinto un premio, la Gazzetta dello Sport l’ha intervistato al telefono e ha pubblicato un bell'articoletto su di lui che ora se l’è attaccato in camera. Mio fratello, che è un intelligentissimo ingegnere, subisce a sua volta un’inquietante trasformazione: sembra affrontare la partita con un distacco maggiore rispetto a mio padre, riesce a fare anche dell’ironia e a sembrare più obiettivo, ma se il Milan perde o subisce una ingiusta (reale o presunta, sempre che quelle calcistiche possano essere definite ingiustizie) si mette a sbraitare, a dire parolacce e talvolta gli scappa pure qualche bestemmia. Di fronte a tanto coinvolgimento, non potevo restare indifferente. Ricordo che, quando ero piccola (circa 7-8 anni), avevo un poster del Milan in camera e mi ero fatta una specie di tabernacolo con qualche ritaglio di Paolo Maldini e qualche cuoricino disegnato. Mi piaceva anche Van Basten, per altro.
L’ambiente ti segna per forza. Ma poi ho proseguito. Ho avuto un ex fidanzato molto tifoso della Fiorentina e con lui sono andata anche allo stadio. La Curva Fiesole è una realtà sociologica notevole: si va dall’anziano che offende l’arbitro nei modi più curiosi al bambino che piange, dal tipo che per tutta la partita non smette di dire, per incoraggiare la squadra: «Andiamo…!» a quello che si scoraggia subito: «Tanto si perde…» fino ad arrivare ai pazzi che dirigono i cori dello stadio e che sono girati verso il pubblico e non verso il campo di calcio (e questa mi sembra fantascienza).
Arriviamo a oggi. Mio marito è un grande tifoso della squadra della sua città che milita in serie B. Non dico come si chiama la squadra per scaramanzia e anche perché mio marito è molto riservato. Comunque, è due anni che il V. fa molto bene e anche io mi sono appassionata. Ho da poco realizzato che forse sto esagerando. Oltre alla partita del V. guardo l’anticipo, il posticipo, l’approfondimento dopo la partita e Speciale Serie B su Sport Italia. Lancio la mia candidatura come esperta: «Pedullà (per la cronaca, è l’opinionista della trasmissione) se hai bisogno ti do una mano». Comunque, dicevo, mi sono accorta di esagerare durante un noiosissimo V.-C. giocato un paio di settimane fa. Mio fratello era a pranzo da noi, gli abbiamo proposto la visione di questo imperdibile match,  lui ha accettato ma a un certo punto del I tempo ha chiuso gli occhi (può negare, ma io l’ho visto) e alla fine del I tempo ci ha detto: «Adesso andrei». Mio fratello guarda tutto, non solo il calcio ma ogni sorta di sport possibile e immaginabile, e la sua reazione mi ha fatto seriamente meditare: vuol dire che la partita (che poi il V. ha vinto 1-0, sempre per la cronaca) era assolutamente inguardabile, eppure io pativo davvero.

Mio marito dice che il calcio lo rilassa molto. Certo, il V. non lo rilassa, durante le partite sta proprio male, ma tutte le altre partite, in cui è meno coinvolto, lo rasserenano: dice che si può abbandonare al campo verde, può guardare quello che succede senza doversi per forza concentrare o partecipare.
Per quanto mi riguarda, il mio legame con il calcio è proprio di natura sentimentale. La mia passione passa sempre attraverso la passione di qualcun altro, è sempre filtrata dalle persone più importanti per me. Anche questo è un po’ il mio modo per voler bene ai miei cari, come con la cucina.
Poi c’è una ragione di riconoscenza, potremmo proprio dire così. Quando io e mio marito andammo a convivere, era il mitico 2006, l’anno nel  quale l’Italia vinse i Mondiali. Bene, la casa era quasi vuota ma avevamo comprato la TV (37 pollici) con una promozione di Mediaword: se l’Italia avesse vinto i Mondiali ci avrebbero ripagato in buoni del costo della Tv. L’Italia vinse e ci benedisse: con i buoni abbiamo acquistato gratis tutti i nostri elettrodomestici. La nostra casa è cioè un'esplosione di calcio.
 E infine c’è proprio una ragione romantica. A me piace l’idea di andare allo stadio con tutta la famiglia, con le sciarpe, le magliette, ad abbracciarci tutti se la squadra vince e a consolarci se la squadra perde. È una visione forse un po’ idilliaca se penso ai cori razzisti e alla violenza, come quella dei tifosi del Genoa che hanno interrotto una partita e obbligato i giocatori della loro squadra a levarsi la maglia perché “non erano degni di indossarla”. È idilliaca se penso al calcio scommesse e a tutta quella merda lì. Ma penso anche che possiamo essere meglio di così, che la maggior parte di noi lo è, e perciò che male c’è a immaginarmi allo stadio con tutta la famiglia e la maglietta del V.?

Bene. Ma un post sul calcio non può esulare dall’argomento che tiene banco adesso a Firenze e non solo. Il caso Delio Rossi-Ljajic. Dunque, premetto che a me Delio Rossi piace. Certo, non è Prandelli, ma mi sembra una brava persona. Ljajic al contrario mi sembra un ganzetto presuntuoso e viziato.  Non è Zanetti, per capirci, ma forse così il paragone è un po’impari; d’altro canto non è neanche Jovetic o El Shaarawy che avranno più o meno la sua età, ma mi paiono più seri e rispettosi.
Quindi vorrei chiarire che a Delio Rossi va tutta la mia simpatia. Sono certa che Ljajic lo abbia profondamente offeso, gli abbia mancato totalmente di rispetto, abbia detto proprio l’unica cosa al mondo capace di fargli saltare la mosca al naso; nondimeno, quel cazzotto lì proprio non si può giustificare. Ben inteso, non credo sia giustificabile né sulla panchina né nello spogliatoio, non è questo il problema: non esiste che un uomo di 60 anni, che ha un ruolo definito e di autorità, cazzotti un ragazzino, sebbene odioso, di 20 anni, suo calciatore. Condanno solo il gesto, non la persona. Delio Rossi mi sembra un uomo tranquillo, pacifico, che molto probabilmente stava vivendo in una situazione di stress e di tensione inesprimibile (sulla quale, forse, bisognerebbe interrogarsi). Gli errori li facciamo tutti. È normale, comprensibile, umano. Non sempre, ma a volte si pagano. Questo è il caso. Con dispiacere, ma trovo giusta la sospensione, trovo giusto l’esonero, e poi si vedrà.

D’altra parte, però, non vogliamo punire anche l’arroganza del giovane Ljajic? Ha mancato di rispetto a un uomo di 60 anni, irridendolo, non mi sembra bello. Mi pare di aver letto che dovrà dedicarsi ai servizi sociali per qualche mese, non so se è vero, e va bene. Ma perché la Fiorentina non gli sospende simbolicamente lo stipendio per un po'? Anche le parole contano. E se gli errori si fanno e a volte si pagano, mi sembra che non dobbiamo sprecare quest'occasione.

venerdì 4 maggio 2012

Noi Femmine doc siamo così


Oggi vorrei dire due paroline sul rapporto uomo-donna raccontando un episodio a cui ho assistito l’anno scorso al mare. Il primo sole della stagione mi piace prenderlo da sola: mi metto sulla riva, leggo un buon libro, ascolto un po’ il rumore delle onde e il chiacchiericcio intorno a me, guardo le persone che passano e la linea dell’orizzonte. Mi rilassa. Non mi piace la solitudine e ci sono pochi posti in cui sto bene da sola: quando passeggio per le vie di Firenze, non ancora invasa dai turisti, in una giornata di sole invernale, quando sono a casa, tra le mie cose, magari in attesa che torni F., e quando sono al mare, sulla spiaggia, perché il mare ha un effetto davvero benefico di serenità e pace su di me.

Comunque, questa l’ambientazione. Ora comincio il racconto. Mi posiziono esattamente tra due gruppi di ragazzini di età compresa fra i 16 e i 17 anni, uno interamente formato da maschi e uno interamente formato da femmine. La mia attenzione è inizialmente attratta dal gruppo maschile, per la semplice ragione che è più rumoroso. L’attività prevalente del gruppo è osservare le tipe che passano e commentarle con molta sincerità, usiamo questo eufemismo. Commentano anche me, a dire il vero, uno fa un apprezzamento (del quale sentitamente ringrazio) ma l’altro obietta che sono troppo secchina e forse anche un po’ extracomunitaria (un po’ perché sono un po’ scura di carnagione).
A uno dei ragazzini piacciono molto le ragazze formose. Come dargli torto, è una posizione maschile piuttosto comune. Diciamo però che lui ha proprio un debole (e lo dice con candore) per le femmine taglie forti e racconta le fantasie che le femmine taglie forti stimolano nella sua testolina (delle quali vi risparmio). Poi arriva un amico, atteso con ansia, anche perché il giorno prima è stato per la prima volta con la sua ragazza. Piovono domande esplicite, ma devo onestamente dire che il giovane è molto vago e discreto, anche se si premura di dire al gruppo di amici che a lui, della sua fidanzatina, non importa niente. Ma questo, si sa, non è assolutamente vero.

Poco più in là c’è un gruppo di ragazzine. Bé, ve l’ho già detto, sono una Femmina doc, ed è per questa ragione che in breve tempo mi appassiono alle vicende sentimentali di una di loro. Il gruppo delle ragazzine non è interessato al mondo esterno come quello maschile, ma è completamente concentrato su un messaggio. È sull’interpretazione di questo messaggio che si innesca tutta la conversazione della mattinata. Il fidanzato di una di loro, chiamiamola S. tanto per fare, si trova a lavorare in un villaggio vacanza, oggi sarebbe il suo ultimo giorno, e pare che non abbia risposto alle chiamate di S. e abbia partorito questo sfortunato messaggio: «Non posso. Ti chiamo dopo». S. non se ne dà pace, primo perché non le torna («È l’ultimo giorno, mi ha detto che non aveva molto da fare, non capisco perché non possa rispondere o chiamare»), secondo perché di fatto ancora non ha chiamato (e già lo anticipo, non chiamerà per tutto il pomeriggio). Le amiche si dividono: una commenta, però solo quando S. è in bagno, che forse: «È un tantino gelosa e oppressiva», un’altra la aizza: «Certo, adesso un po’ di tempo è passato, non dico chiamare se non può, ma un messaggio almeno potrebbe mandarlo!», un’altra cerca di essere neutrale e di giustificarlo, dicendo che magari non ha il cellulare con sé, un’altra ancora pensa a lungo termine, suggerendole comunque di aspettare e di non chiamarlo lei, per carità, «sennò gliela dai vinta». S. di questo sembra al momento convinta ma cammina su e giù, fumando nervosamente. Penso che lui non ha la benché minima idea di aver provocato tutto ciò con quel messaggio, proprio non se lo immagina e, se lo sapesse, se ne dispiacerebbe pure, anche se non ne capirebbe le ragioni. Comunque. La storia si fa sempre più interessante. Passano un paio d’ore. S. ha un’idea. «Se chiama rispondi tu», dice a un’amica, «E se ti chiede di me digli che ero un po’ triste e che quindi sono andata a fare una passeggiata da sola sulla riva». Molto femminile anche questo. Vorrebbe far capire al ragazzino, senza però dirglielo, che lui l’ha ferita. Vorrebbe che lui, preoccupato, si interessasse a lei. E vorrebbe farlo sentire in colpa. Ma il piano di S. è vano, perché lui non chiama. Passa un’altra ora. Le amiche vanno a fare il bagno, lei rimane sotto l’ombrellone. So con chiarezza cosa farà, cosa aspettava di fare non appena rimasta sola, cosa voleva fare dal primo momento e si stava trattenendo. Chiamarlo. Finora le avevo solo ascoltate (direte, ma i fatti tuoi? Eh, lo so, sono stata un po’ troppo curiosa, ma era ormai diventato un esperimento sociologico, e poi mi sono appassionata davvero), a questo punto mi giro a guardarla. Si avvicina alla borsa, tira fuori il cellulare e chiama. Lui non risponde. E poi vedo che formula un messaggio e si rimette giù a prendere il sole con il cellulare accanto. Le amiche tornano, lei fa finta di niente, lui non risponde. E il resto non lo so.

Da Femmina doc provo a interpretare. Secondo me il ragazzino era impegnato davvero. Fra l’altro era il suo ultimo giorno,che senso aveva telefonare dato che sarebbe presto tornato e presumibilmente si sarebbero visti? D’altra parte il messaggio è sbrigativo, quel “dopo” è vago, e a parer mio volutamente vago: «Cosa ti lamenti, ti avevo detto che ero occupato, e che ti avrei chiamato appena mi sarebbe stato possibile». (perché mi piacciono le storie a lieto fine - anche in questo Femmina doc - e quindi non la prendo neanche in considerazione l'ipotesi che lui si stesse divertendo alle sue spalle). Cioè non ha mentito, ha chiamato dopo, forse la sera, esattamente come aveva detto. Cosa quel dopo volesse dire però non era chiaro. Di certo non voleva essere disturbato.
E in più credo di capire, sempre da Femmina, il disappunto e la tristezza di S. Se il fidanzatino era in procinto di tornare, sarebbe dovuto essere felicissimo e morire dalla voglia di rivederla. Lei si aspettava che lui provasse questo sentimento e che, oltre a provarlo, lo esprimesse. Ma ha dovuto scontrarsi con un messaggio che era solo pratico e non rassicurante.
Nessuno si è comportato male. Lungi da me sostenere questo. La storiella vorrebbe provare solo che è vero quello che dicono sui rapporti uomo-donna, sulla differenza di genere e sulla difficoltà che hanno talvolta questi due generi a comprendersi.

Lui è stato forse sbrigativo e poco sensibile e niente più. Lei è stata sicuramente macchinosa e insicura ed emotiva. Ma che volete farci? Noi Femmine doc siamo così.

martedì 1 maggio 2012

Pensiero e parola


Un altro aspetto che mi piace molto della filosofia di Platone è l’uso del dialogo. Mi piace proprio che concepisca la filosofia (che, non dimentichiamolo, è amore per la saggezza) come dialogo, ovvero come contrapporsi di due (o più) individui, ciascuno dei quali è costretto a tener conto dell’altro e accetta questa contrapposizione come elemento indispensabile per l’autenticità , la verità e la crescita del proprio pensiero.

Innanzi tutto, secondo me il pensare all’interno di noi avviene proprio sotto forma di dialogo. Cioè, non so come pensate voi, ma io proprio non riesco a farlo come se partorissi un trattato scientifico. È come se nella mia testolina ci fossero delle voci, ognuna delle quali deve dire la sua. No, non sto parlando delle due solite vocine, l’angelo e il diavolo, o perlomeno, non solo. Magari avessi solo due vocine! Avrò, se va bene cinque, se va male dieci, omini nella mente che, di fronte a un avvenimento (che reputo rilevante), mi dicono: «Questa cosa è avvenuta per questo motivo», «Ma che dici?, è avvenuta per quest’altro motivo», «Siete proprio tonti, tutti e due, state dimenticando le ragioni profonde», «Ma quali ragioni profonde, vale sempre la regola del rasoio di Hoccam: è la spiegazione più banale la ragione di tutto», «Sì, ragazzi, ma qualunque sia la ragione, non serve a nulla saperla, l’importante è agire», «Oh, questa poi, e se non sapere le ragioni portasse ad agire male?» eccetera eccetera eccetera. Direte voi: ma in mezzo a questo marasma di voci non rimani immobile senza sapere cosa fare? Bé, in effetti a volte sono un po’ bloccata, la mia mente è piuttosto contraddittoria, ma interviene la volontà, che fa del suo meglio. Comunque, dicevo, a volte le vocine si fanno la guerra, altre volte invece è come se giocassero al gioco delle associazioni. E questo è il momento più bello. Una vocina dice: «Mare», allora l’altra suggerisce di pensare a un episodio avvenuto al mare, che in genere si lega sempre a una persona in particolare, e dalla persona risalgo a un altro ricordo, a un altro episodio, a un’altra persona ancora e così via. Però sto divagando. Quello che voglio dire è: quando medito, o attraverso lo scontro di pensieri diversi e talvolta opposti, o attraverso il luminoso richiamo di un pensiero all’altro, sto dialogando con me stessa. Pensare è questo, secondo me. Non avere un’unica visione ma dialogare.

D’altra parte, i greci, che la sapevano lunga, usavano un unico termine per indicare il pensiero e il discorso, che è logos. Logos per i greci è tutto: vuol dire innanzi tutto parola, nel senso di mezzo con cui si comunica con gli altri, vuol dire discorso, nel senso di conversazione, colloquio, scambio di opinioni, vuol dire racconto, nel senso di storia e narrazione, vuol dire ragione, nel senso di essenza delle cose e di spiegazione, vuol dire infine pensiero, nel senso di opinione e valutazione di un concetto o di un evento. In questo senso quello di Platone è logos. Pensiero discorsivo, potremmo dire.

Ma c’è un’altra ragione percui mi piace che Platone concepisca la filosofia come dialogo. Significa riconoscere che la filosofia non è solitudine, ma scambio. È accettazione dell’altro. È capire che se abbiamo una determinata posizione essa è vera solo se è cresciuta grazie alla posizione dell’altro, che abbiamo inglobato o anche scartato, ma che comunque abbiamo necessariamente dovuto prendere in considerazione. In altri termini, è nello scambio con l’altro, nell’essenza stessa dell’altro,  la misura della nostra verità (questa non è mia, l’ho letta in un saggio!).
Concepire la filosofia – ovvero, di nuovo, l’amore verso la saggezza – sottoforma di dialogo, mi sembra una grande e profonda trovata. Significa riconoscere che si vive nello stesso mondo, e che si è veri e saggi, o anche solo desiderosi di verità e saggezza – cosa che va bene lo stesso –  se sappiamo  confrontarci;  e che la possibilità di vivere tutti nello stesso mondo sta nell’unico spazio in cui è possibile il confronto fra gli uomini: attraverso il logos, e questa volta logos inteso nel suo significato primo, ovvero attraverso la parola.