giovedì 31 maggio 2012

Equilibrio e pudore


Ho aperto questo mese con un post su Platone e vorrei concluderlo sempre con un post su Platone.

Com’è noto, sembra che Platone non amasse molto la poesia e soprattutto non vedesse di buon occhio quella che secondo me rimane la più bella opera filosofica e letteraria che sia stata mai scritta: la tragedia (greca, intendo). Nella Repubblica ha parole piuttosto forti contro la poesia (intesa anche nel senso di letteratura) e la tragedia: non sono educative, perché sono ingannevoli, ci dice, non svelano la verità, ci raccontano bugie con le quali è facili illudersi. Invece, prosegue Platone, a noi filosofi interessa il vero, interessa l’essenza delle cose, e non dei facili giochetti attraenti ma menzogneri.

Come al solito, anche in questo ragionamento si annida una contraddizione. Platone ha scritto pagine di filosofia teoretica pura ma anche di lirica poesia. L’ha fatto proprio deliberatamente: laddove il discorso razionale non può arrivare, bisogna lasciar parlare il mito, il racconto, proprio quell’ingannevole storia che sembra bandire nella Repubblica. E i suoi dialoghi sono così pieni di poesia: nel mezzo di una spiegazione concettuale ecco che si apre una breccia verso un mondo fantastico, fatto di carri alati, di cavalli neri e bianchi, di divinità che tessono il destino di ogni uomo, di eroi che tornano dall’aldilà. Platone stesso si è abbandonato alla poesia. È stato un grande poeta. Non solo. Pare che avesse scritto pure delle tragedie che poi ha bruciato, perché non era convinto.

Come stanno insieme queste due anime? Questa sferzante critica e insieme questa passione?  Bè, non che sia poi così strano amare ed odiare lo stesso oggetto o lo stesso soggetto, direi che ci capita molto spesso. È comunque un fenomeno spiegabile. E questo vale anche per Platone.

I problemi maggiori, intendo dire di conflitto maggiore, Platone li aveva con la tragedia. Perché lo sapeva benissimo che la tragedia greca è un’opera d’arte straordinaria, la forma letteraria e poetica più complessa e anche filosoficamente più densa, perché sa trattare di tutti i temi umani: la morte e la vita, la colpa, la vendetta e il perdono, la libertà e la necessità, il rapporto fra il cittadino e la comunità. Ma forse proprio per questa ragione, perché gli argomenti trattati sono così profondamente radicati nell’animo umano, Platone della tragedia aveva paura. I personaggi della tragedia provano passioni straordinarie: per un odio feroce sono in grado di uccidere la propria madre, per un tradimento subito di vendicarsi sui propri figli, per un errore di valutazione di punire chi non merita. I personaggi compiono azioni coraggiose e violente, terribili ma paradossalmente comprensibili, perché noi che guardiamo comprendiamo con chiarezza e lucidità le motivazioni che hanno spinto i personaggi ad agire, e anche le furiose emozioni che si sono scontrate nel loro animo.
La tragedia, secondo Platone, scatena, nell’animo umano, passioni contraddittorie e  infuocate, violente e forti.  Troppo forti. Per esse si uccide. Per esse si compie il male. Ed ecco perché Platone si pone verso la tragedia con duplice atteggiamento. Ne è attratto, perché è convinto che sappia scendere nei meandri della mente umana. Ma la teme, e teme che possa essere educativamente pericolosa, perché scende così a fondo da far vacillare anche noi che vi assistiamo.

Questa non è una buona ragione per bandire la tragedia dallo stato perfetto di cui parla nella Repubblica. Vero. Ma Platone alla tragedia risponde con la sua filosofia. Cerchiamo di conoscere le nostre passioni, anche quelle violente, ci dice. Ma non per abbandonarci con voluttà ad esse. Non facciamo sì che prendano il sopravvento e ci indeboliscano. Rispondiamo con l’equilibrio. E al dolore che ogni evento più o meno tragico porta con sé non rispondiamo con vendetta, con rabbia, con violenza (come accade ai personaggi della tragedia), ma con il decoro e il pudore di chi in tale dolore si immerge, e con la dignità e la misura che la ragione impone.

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