domenica 13 maggio 2012

Je vous écris de la France de Hollande...


Une semaine de vacances pour nous! Nous sommes dans la Côte d'Azur. E ora con il francese mi fermo qui, perché sennò chissà che castronerie scrivo…anzi, chiedo cortesemente a N. e V., le mie amiche del corso, di controllare l’inizio del post (per esempio, mes amies, quel "dans" va bene?!)
Questo è il mio primo sole della stagione e forse ieri ho un po’ esagerato perché sembro una lampadina a neon. Per fortuna oggi il tempo non è bellissimo, e tra poco io e F. andremo a Nizza a fare una passeggiata e magari a vedere il museo Matisse.
Ma ecco qua alcuni pensieri sparsi relativi a questi due nostri primi giorni di vacanza:

1) Ieri abbiamo fatto il bagno, in un’acqua ghiacciata che vi raccomando. Ma impavida mi sono buttata, memore delle parole della nonna di Marjane Satrapi nel film Persepolis. Quando la bimba chiede alla nonna come faccia ad avere le tette così sode, lei risponde che tutti i giorni mette dei cubetti di ghiaccio. Perciò saggiamente medito: «Se nell’acqua ghiacciata ci metto non solo le tette ma tutto il corpo mi rassodo tutta». Con questo pensiero scolpito nella testolina ho fatto ben tre bagni (accompagnati da vergognosissimi versi e sentendomi le gambe in procinto di congelarsi). Intendo comunque perseverare anche nei prossimi giorni.

2) Nel  pomeriggio sulla spiaggia ero da sola (giocava il V. e mio marito se l’è guardato in streaming attaccato alla porta di casa per sfruttare al meglio la connessione dei vicini. Francamente mi è sembrato troppo, perfino per me, e così sono tornata solo per l’ultimo quarto d’ora di partita. Comunque, per la cronaca, il V. ha vinto!). Dicevo, in spiaggia mi sono messa a osservare i miei vicini di sole e la mia attenzione si è presto rivolta verso una famiglia formata da tre donne. La mamma era una signora sprint sui 40 con i capelli tagliati corti neri a spazzola. Una tipa tosta: quando è entrata nell’acqua congelata non ha battuto ciglio. La figlia maggiore era una ragazzina sui 15 anni, dai lunghi capelli ricci castani tenuti indietro da un elastico, non tanto alta ma con un fisico molto promettente. E la figlia più piccola era una bambina sui 12, magra e slanciata, con un grazioso costume a fiori e con una piccola coda di cavallo che teneva indietro i capelli lisci e castani. Curioso: si passavano non più di tre anni, ma si trattava di quei tre anni che trasformano una bambina in un’adolescente, e vedendole accanto era straordinariamente evidente.
Devo dire che le tre non si somigliavano affatto, ma ho ugualmente immaginato che fossero una famiglia perché erano così perfettamente assortite che mi piaceva immaginarle così. Non ero abbastanza vicina per ascoltarle (inoltre avrei avuto difficoltà perché parlavano in francese) ma siccome ho sentito la parola “Grenoble”, ho fantasticato sul fatto che giocassero al gioco delle lettere. (Cioè uno dice una lettera e gli altri devono dire una città con quella lettera, un animale con quella lettera, una pianta con quella lettera, eccetera). Chissà perché ho immaginato questo: erano allegre, ridevano, mi sembrava bello che facessero un gioco insieme.
Poi mi sono alzata io per fare un tuffo. Sapevo che si sarebbero voltate a vedere com’ero, che costume indossavo, se a stare al sole ero diventata un’aragosta (ebbene sì, lo ero diventata!) e cosa avrei fatto una volta impiedi. In quel modo che abbiamo noi donne di guardare le altre donne. Con quella curiosità femminile che ci rende simili. E così è stato. Mi hanno osservato mentre mi buttavo in acqua. In modo amichevole, senza malignità. Come io guardavo loro. Ho pensato che è proprio uno spreco non poter conoscere tutte gli sconosciuti  del mondo. Ho pensato a quante storie perdiamo. A quante vite non conosciamo. E a quanto però siamo pieni di momenti e episodi come questi, dove, anche se solo per un attimo, anche se solo nello spazio di uno sguardo, la nostra vita si intreccia in modo del tutto casuale e inconsapevole con quella di qualcun altro.

3) Il libro che mi accompagna in questi primi giorni di vacanza è Molto forte, incredibilmente vicino (Extremely Loud, Incredibly Close) di Safran Foer. È un bel libro, il primo che leggo nel quale si parla di un lutto legato all’11 settembre, e l’autore riesce a farlo in modo dolorosamente dolce e candidamente buffo mettendosi nei panni di un bambino che nel “giorno più brutto” ha perso il padre. Già il titolo è bello, almeno credo. È formato da due aggettivi che mi piacciono parecchio: forte e vicino. E anche gli avverbi usati in abbinamento sono notevoli: “molto” è nel senso di “estremamente”, cioè “è così forte che fa male”, e “incredibilmente” dà proprio l’idea di sorpresa, cioè “rimango senza parole per il fatto che sia così vicino”. Sono a pagina 126, alla fine vi dirò com’è. Però vi lascio con le ultime parole che ho letto, che mi hanno fatto venir voglia di scrivere questo post e che ho un po' fatto mie.

Eccole qua. «A me piacciono le persone riunite, forse è sciocco, ma che dire, mi piace vedere la gente che si corre incontro, mi piacciono i baci e i pianti, amo l’impazienza, le storie che la bocca non riesce a raccontare abbastanza in fretta, le orecchie che non sono abbastanza grandi, gli occhi che non abbracciano tutto il cambiamento, mi piacciono gli abbracci, la ricomposizione, la fine della mancanza di qualcuno, mi siedo in disparte con un caffè e […] osservo e scrivo, […], essere qui mi riempie di gioia il cuore anche se la gioia non è mia».

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