domenica 4 novembre 2012

Le mie avventure lavorative - Parte IV


Eh… questa puntata è ancora un nervo scoperto per me. Cercherò di essere il più obiettiva possibile, anche se è davvero difficile porre quella distanza che consente una maggiore obiettività. Perciò spero di non ferire nessuno con questo post: si tratta sempre di quello che io ho percepito, e non pretendo pertanto di essere depositaria di una verità assoluta. Quella di cui sto per parlarvi è solo la mia verità.

Alla fine del 2006 ho cominciato a collaborare con un prestigioso istituto culturale fiorentino, il V.: tra prestazioni occasionali e contratti a progetto, mi sono occupata di ricerca, di editing e redazione di volumi, di organizzazione e segreteria di convegni, piccole mostre e conferenze. Devo molto al V. sia in termini di formazione e maturazione lavorativa, sia in termini affettivi.
Da una parte, cioè, mi ha permesso di collaborare con l’Università e con altre realtà culturali fiorentine, mi ha concesso di fare per anni un lavoro bello e gratificante, in linea con i miei studi, un lavoro che mi piaceva e in cui credo di essere stata brava. Ho sempre avuto un buon rapporto con il mio responsabile (dopo l’esperienza nella pubblicità all’inizio che fosse una persona pacata e niente affatto iraconda mi sembrava quantomeno strano… ero sempre in attesa che esplodesse... prima o poi!). Per quello che mi ha trasmesso lo stimo molto. Mi ha anche ridato molta della fiducia in me stessa che con la MTC se n’era bellamente andata.
D’altra parte, gli anni al V. sono stati davvero i più pieni di vita per me. Le persone che hanno popolato quegli anni mi hanno cambiata e arricchita. E la quotidianità, fatta di caffè alle 11 con i colleghi, di teini (martedì dopo il lavoro) con M., e di chiacchierate con C., E. e le altre, bé, era una coperta sicura, anche quando mi sentivo malinconica, o agitata, o avevo combinato qualche stronzatella delle mie.

E, dopo aver creato questo clima idilliaco, intendo spezzarlo a colpi di accetta. Vi chiederete: ma com’è che non lavori più lì? Destino dei contratti a progetto: sono fatti per finire, anche quando lavori in un luogo per anni, con continuità, come è accaduto a me. E finiscono, vorrei specificarlo, con un calcio in culo, cioè senza cassa integrazione o altri regalini simili. Finiscono, e basta, come finisce un amore; tante grazie e tanti saluti.

E ora vi racconto com’è finita per me. Il nostro boss è andato in pensione, niente di più niente di meno. Lui dirigeva un settore del V.: senza di lui questo settore semplicemente non esiste più (o meglio, esiste, nel senso che la porta è aperta e che è rimasta una sala di consultazione, ma nessuno dei progetti che seguivamo c’è ancora), e tutti noi collaboratori (una decina) siamo stati mandati a casa.
A suo tempo pensammo insieme di scrivere una lettera a Renzi. Non tanto perché ci si aspettasse una soluzione, quanto per segnalare un problema, per essere visibili. Voglio dire, perché “esautorare” un settore che è vissuto 30 anni come se non ci fosse mai stato? E poi… si può sempre discutere nel merito dei singoli progetti, ma è vero che noi collaboratori eravamo un gruppo di studiosi, tutti giovani e molto qualificati, ed è quantomeno triste prendere a martellate un gruppo di lavoro. Ma la lettera (che è stata scritta) non è mai partita. Siamo stati bloccati da dinamiche interne: quando in un luogo di lavoro esistono settori diversi, non è detto che dialoghino fra loro o che abbiano interessi condivisi. Siamo stati vittime di questa situazione, e questo ha diviso anche noi. E devo dire che è stato questo a ferirmi di più: la consapevolezza che, per quanto si possa essere forti e coesi, a volte non basta, perché gli eventi esterni sono capaci di essere più forti di te e delle tue intenzioni.

Così, a luglio 2011, è finito tutto (qui forse ho esagerato con il patetismo, il racconto mi ha preso la mano!!!). Non è stato tanto facile per me, soprattutto per quello che rappresentava il V. da un punto di vista affettivo. E anche perché non sono molto brava ad affrontare le separazioni o gli abbandoni, mi segnano in modo indelebile.
Non è stato poi facile digerire un finale così umiliante e logorante. Sapete cos’è offensivo? Che è come se non avessi perso il lavoro, perché in fondo sono sempre stata a progetto, come se il mio lavoro fosse di serieB rispetto a chi è assunto a tempo interminato. Eppure io ero lì, tutte le mattine e anche diversi pomeriggi, da cinque anni. Non è come perdere il lavoro? 5 anni non sono 20, ma per una persona di 33 anni come me è un ciclo di vita, è come il tempo delle Elementari, delle Scuole Superiori, dell’Università. Mi dispiace, sono anni sufficienti per starci male.

Sapete però che io non sono una tipa che si scoraggia. Se piango poi mi rialzo. E così, dopo il V., ho veleggiato verso una nuova avventura lavorativa (…pessima ma tutta da raccontare… nella parte V!).

Intanto dedico questo post ai miei ex colleghi (e sempre amici) del V. con tutto il mio affetto e la mia stima.

Nessun commento:

Posta un commento