lunedì 13 agosto 2012

Olimpiadi italiane

Sono appena finite le Olimpiadi. Dopo tutto l’anno di calcio che mi sono fatta avevo voglia di cambiare un po’ e di guardarmi altri sport. E le Olimpiadi hanno tanti sport, tante persone e tante  storie da raccontare e regalare.
Come ogni anno, non riesco a vedere le premiazioni: vi succede anche a voi di commuovervi? Io proprio non mi trattengo, è così bella la gioia genuina di chi vince dopo tanto sforzo e sacrificio, ed è così toccante il momento dell’inno. Non solo italiano, intendo. Anzi, mi piace proprio il fatto che sia possibile sentire l’inno di nazioni diverse, mi piace che sul podio vi siano insieme persone di stati e continenti diversi. In fondo è questo che lo sport dovrebbe fare: unire.

Ma, dopo la notazione cosmopolita, veniamo alla nostra piccola Italia. Non so se avete notato che fra spade pistole e cazzotti ce la caviamo alla grande. Monti ci aveva detto che dovevamo prepararci alla guerra e noi siamo stati di parola: le Olimpiadi hanno dimostrato che abbiamo ottimo tiratori scelti, nel corpo a corpo fra pugilato e judo abbiamo qualche cartuccia da giocarci, e se per caso venisse voglia di tornare al duello, bè… lì non c’è proprio partita: mettiamo in campo la triade Di Francisca Arrigo Vezzali (e ci possiamo pure permettere la riserva Salvadori) ed è fatta.
A dire il vero, trovo più appassionanti e divertenti gli sport di squadra. Ieri abbiamo vinto un sofferto bronzo nella pallavolo maschile, e perso la finalissima della pallanuoto (peccato, anche se l'argento è comunque un buon risultato), ma vorrei spendere due parole sul beach-volley. Bellissimo. Uno per la localizzazione: tutte le volte che la telecamera si allargava dal campo al contesto, ovvero dalla sabbia a Whitehall era da brivido. E poi la coppia delle grintose ragazze italiane con le unghie smaltate di rosso bianco verde mi faceva veramente simpatia, peccato non siano arrivate in fondo. Sul fioretto a squadra non dico nulla, ma sentire il ticchiettio delle spade e lo stadio urlare in coro (e si sentiva benissimo in televisione) «Italia Italia» è stata davvero un’emozione.

In realtà la mia passione sportiva è l’atletica, perché ho un giovanile – dunque remoto – passato da corritrice di 800 e 1500, ebbene sì (con mediocri risultati, comunque). Qui, si sa, l’Italia non eccelle, anche se va riconosciuta la bravura di due atleti neanche di primo pelo: il trentacinquenne bronzo del salto triplo Fabrizio Donato (anche un po’ fortunato, ma non guasta) e l’altrettanto trentacinquenne madre di famiglia magrissima maratoneta Valeria Straneo, che, certo, non si è aggiudicata il podio, ma il suo ottavo posto per me vale, per la difficoltà della gara, che si gioca interamente sull’allenamento e sulla testa, come una medaglia.

E poi c’è la nota nera delle nostre Olimpiadi italiane: il caso Schwarzer. Purtroppo non ho visto la conferenza stampa e non ho letto nessun articolo su di lui. Lo so che ha sbagliato, che ha imbrogliato, ed è giusto punirlo anche severamente, ma onestamente mi dispiaceva un sacco: a me lui sta simpatico, mi pare un bravo ragazzo e,in quei cinque minuti in cui ho visto lui e poi il padre (ma non potevate lasciarlo in pace, almeno il padre?) piangere in tv, mi ha fatto proprio un’umana pena. È che a volte le pressioni esterne, il desiderio di essere all’altezza insieme alla fragilità e alla vulnerabilità, ci conducono a commettere i più inutili e gravi errori. È difficile arrivare primi. Lo si può ottenere con lo sforzo, la fatica, l’umiltà, la concentrazione, la volontà. Più difficile ancora è rimanere primi, perché allora si comincia a credere che non basta lo sforzo, non basta l’umiltà né la concentrazione né la volontà né lo sforzo e serve di più e ancora di più.
Ma la cosa più difficile è rendersi conto che non si è migliori se si è primi o peggiori se non lo si è. Siamo sempre e comunque noi stessi, siamo sempre la stessa persona, che a volte riesce, a volte riesce meno, a volte non riesce per niente. La differenza fra essere migliore o peggiore (sempre che esista questa differenza) non la fa una singola prestazione, ma la capacità di rialzarsi. Succede di fallire. Succede di sbagliare. Ma la vita è un cammino troppo lungo per non regalare altre possibilità e l’errore più grande per me è il pensare di averle esaurite tutte: questo, nello sport come nella vita, non è mai così.

E ora basta, perché, quando dico queste cose, poi finisco per prendermi troppo sul serio, e di fare una specie di maestrina saggia proprio non mi va.


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